Pensare il percepire
Gabriele Gabbia dialoga con Nanni Cagnone
   
Lumelli   G.G. Quand’è che hai iniziato a versificare? Inoltre: rammenti precisamente l’età in cui hai avvertito per la prima volta che la poesia era per te una «perseguitante necessità»?

N.C. Versificare, è la parodia della poesia. Cominciai a scriver assiduamente poesia intorno ai quattordici anni. Se avessi avuto maggior libertà, e successo con le ragazze, avrei fatto qualcos’altro. Ad Altare viveva Aldo Capasso, poeta veneziano assai noto negli anni Trenta, pubblicamente schernito e privatamente adulato da Montale, e comunque amico di Paul Valéry, Jean Grenier, Valery Larbaud, Ugo Betti, Vincenzo Cardarelli. Fu lui ad introdurre e pubblicare nel 1936 l’opera prima di Giorgio Caproni (Come un’allegoria). Nel 1954 andai a trovarlo, con le mie prime poesie. Lui lesse, poi disse «Lei diventerà un grande poeta». Beh, grazie per il ‘lei’, ma un adolescente spera in qualcosa di meglio. Ad ogni modo, mi pubblicò poesie e testi di critica letteraria in Realismo Lirico, rivista da lui fondata all’inizio dei Cinquanta. In seguito, scrissi poesia in modo discontinuo e non pubblicai alcunché, se si eccettuano i pochissimi testi usciti qua e là negli anni Sessanta. Mi dedicavo invece al teatro. Allorché, nella seconda metà dei Sessanta, ero redattore (anche di Marcatré) e direttore di collana alla Lerici, avrei potuto pubblicare facilmente, ma quel che scrivevo non mi piaceva abbastanza, perciò il mio primo libro uscì in edizione bilingue a New York nel 1975. Avevo già trentasei anni. Tuttavia, in quel periodo non scrissi granché, preferendo viaggiare, ballare e frequentare ragazze di bell’aspetto. La poesia divenne un relativo assillo fra i quaranta e i cinquant’anni. Ormai sono vecchio, e in certo modo estraneo. Se negli ultimi vent’anni ho scritto molto, è anche perché la poesia è una delle poche cose che posso fare ancora.
   
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