Enrico Cerasi
    Le lepri di Adorno.
A proposito dell’individuo e della modernità
   
Horkheimer, Adorno e Habermas   Comunque tra poco sarò finalmente morto del tutto. Forse il mese prossimo. [...] Ho questa sensazione, ce l’ho già da qualche giorno, e le do credito. Ma in cosa differisce da quelle che mi ingannano da quando sono al mondo? No, questo è un tipo di domande che non attacca più, con me, non ho più bisogno del pittoresco. Se volessi morirei oggi stesso, basterebbe spingere un po’, se potessi volere, se potessi spingere. Ma tanto vale che mi lasci morire, senza affrettare le cose. [...] Durante la notte devo aver riflettuto a come impiegare il tempo. Penso che potrò raccontarmi quattro storie, ciascuna su un argomento diverso. [...] Forse non avrò il tempo di finire. Da un altro punto di vista, forse finirò troppo presto. Eccomi di nuovo dentro le mie vecchie aporie. Ma si tratta di aporie vere e proprie? Non so. Che non finisca, non ha importanza. Ma se dovessi finire troppo presto? Nemmeno questo ha importanza. Perché in tal caso parlerò delle cose che restano in mio possesso, è un progetto vecchissimo. Sarà una sorta di inventario. A ogni modo questo lo dovrò lasciare da parte per gli ultimissimi momenti, per essere sicuro di non essermi sbagliato.

È inutile, non posso farci nulla: quando inizio a leggere un’opera di Beckett, ad esempio un suo romanzo, non riesco a finire la lettura; del resto, è difficile anche solo trovare un punto in cui il discorso possa dirsi concluso, dotato di senso compiuto (come da buona scuola joyciana). Questa volta ho preso in mano i suoi romanzi con il proposito di trattare il tema del rapporto tra individuo e modernità nel pensiero di Adorno. Non c’è bisogno di citazioni per provare che vi è una stretta affinità tra i due. Per Adorno, Beckett era tra i pochissimi che avessero compreso, e realizzato, il compito dell’arte nella condizione moderna, dove qualunque concessione alla conciliazione diviene immediatamente falsa; falsa e complice della violenza del tardo capitalismo, espressione di una modernità divenuta barbarie.
Violenza su chi, su che cosa? E da parte di chi? Nella Dialektik der Aufklärung (dove la parola Aufklärung non si limita a evocare l’Illuminismo propriamente detto, alludendo piuttosto all’intero processo di razionalizzazione, da Omero al neopositivismo) Horkheimer e Adorno, forse anche troppo sistematicamente, parlano di una violenza, di un triplice dominio della ragione illuminata, strumentale, tecnico-guridica, sulla natura, sulle classi oppresse e sull’individuo, compreso soprattutto quale inconscio individuale. Una nozione di dominio alquanto stratificata, dunque. Ma già nei Minima moralia, a mio avviso uno dei capolavori della letteratura del Novecento, l’attenzione di Adorno sembra concentrarsi prevalentemente sull’individuo. È l’individuo ciò contro cui il tardo-capitalismo si accanisce; su di esso sembra concentrarsi tutta l’asettica violenza, tutta la sistematica repressione di cui è capace una società che ha mostrato in Auschwitz il suo vero volto, ma che ora è in grado di ottenere lo stesso risultato con mezzi apparentemente più innocui – con ciò che già nella Dialektik der Aufklärung veniva chiamato ticket thinking . Ciò non toglie che la violenza, dopo Auschwitz, subisca un’escalation delle più 'girardiane': mentre nella forma nazionalsocialista era l’individuo ebreo ciò che il potere voleva liquidare , nella democrazia liberale americana (e poi mondiale) è l’individuo tout court ciò che risulta sempre più sospetto, se non altro in quanto esso 'è divenuto un ostacolo alla produzione' . Il tardo-capitalismo è 'razzista' nei confronti dell’individuo, non importa come qualificato; ma chiunque cerchi di sottrarsi all’obbligo di pensare per ticket, di destra o di sinistra, reazionari o progressisti, in ogni caso per appartenenze, per schieramenti contrapposti ma ugualmente universalmente validi, va senz’altro liquidato:

L’invettiva razziale era ancora una deformazione della libertà civile. [...] L’antisemitismo era ancora un motivo concorrente nella scelta soggettiva. La decisione si riferiva specificatamente ad esso. È vero che, nell’adesione alla tesi razziale, è sempre stato implicito tutto il vocabolario sciovinistico; il giudizio antisemitico è sempre stato un indizio di stereotipia mentale. Ma oggi non rimane che questa stereotipia. Si continua a scegliere, ma solo tra totalità. In luogo della psicologia antisemitica è subentrato, in larga misura, il puro sì al ticket fascista, all’inventario degli slogans della grande industria schierata in posizione di combattimento. Come sulla lista elettorale del partito di massa sono imposti all’elettore, dalla macchina del partito, nomi di persone che sfuggono alla sua esperienza e che egli può votare solo in blocco, così i capisaldi ideologici sono raggruppati in poche liste. Per una di esse devi optare in blocco, se non vuoi che le tue opinioni ti appaiano così vane come i voti dispersi, il giorno delle elezioni, vicino alle cifre monstre dei colossi. L’antisemitismo non è quasi più un impulso autonomo, ma un asse della piattaforma: chi si pronuncia per un tipo o per l’altro di fascismo sottoscrive automaticamente, con l’annientamento dei sindacati e la crociata contro il bolscevismo, anche la liquidazione degli ebrei.

L’antisemitismo viene dato in omaggio a chi acquisti il biglietto per Hollywood, dove si assiste all’emozionante spettacolo della liquidazione democratica dell’individuo, chiunque esso sia.

Horkheimer, Adorno e Habermas, Heidelberg 1965
   
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