Nanni Cagnone
di Lucetta Frisa
   
lucetta frisa   In tutta la poesia di Nanni Cagnone, si respira un’aura di sacralità e di “svuotamento”, un’aura d’ineffabile sospensione oltre i confini dell’umano e del mondo (“grande uccello traversante il mare / è appunto la terrestrità”, What’s Hecuba to Him or He to Hecuba?, OOLP, New York 1975). La radice antichissima della poesia, nata da una forma d’insistente e indiretta interrogazione-invocazione al Mistero, sottende occultamente tutta la sua scrittura, la colora di un’inafferrabile, fascinosa tonalità “alta” senza mai l’enfasi che simile abito linguistico può rischiare almeno di striscio: imprescindibile quindi è la memoria, la radice, l’origine, che sono le vere e sole “insegne” o vestigia di chi, scrivendo, riconosce l’eredità dell’ignoto da cui veniamo e verso il quale ci muoviamo. Sempre Cagnone – secondo il titolo appunto, di Andatura, uno dei suoi primi libri importanti – è rimasto fedele a questa forma evocativa di classicità, andatura di re che cavalca con fierezza tra i suoi guerrieri, non per eccitarli all’inutile battaglia ma per persuaderli a non vedere neppure il nemico, a non degnarlo di uno sguardo – sguardo multicentrico da iniziato o da grande saggio – dichiarando così uno stato di inappartenenza al mondo e al presente. Chi sia il nemico per un uomo, e a maggior ragione per un re, è facilmente intuibile. Non certo la sola precarietà fisica ma anche l’altrettanto mortale universo del pensiero. Comunque, il re sa di perdere in battaglia; sa di ferirsi e cadere, ma non giacerà in nessuna polvere. Lui è re sempre, non può dismettere né rinnegare la sua regalità: può solo “dire” l’inevitabile sconfitta ontologica e intellettuale. In Discorde (La Finestra Editrice, Lavis 2015) scrive: “Il mondo esteriore—per noi, una superficie solamente, utile a invogliare pensieri. Porre nel non-visibile il valore del visibile, fa credere superficiale l’apparenza, e al vero assegna qualità d’abisso”.
La scelta della poesia per questa breve nota consiste nelle prime tre strofe di uno dei suoi ultimi volumi, il poemetto Tacere fra gli alberi, Coup d’Idée, Torino 2014 (nel presente testo tutte le citazioni di cui non si riporta la fonte sono tratte da questo libro) ed è particolarmente suggestiva perché entra in confidenza con il congedarsi, dissolvendo ogni armatura retorica del dire, anche quella – estrema – che difende i riverberi del nulla: (forse l’immagine guerriera che mi balza alla mente parlando di questo poeta nasce in buona parte da due dei suoi libri fondamentali e abbaglianti come Andatura (Società di Poesia, Milano 1979) e Armi senza insegne (Coliseum, Milano 1988).
La cadenza “Ne l’aperto ora, / nel folto, nel diramarsi / dell’inestricabile, / ovunque ebbe principio / un atto di luce” è quella di un poema gnomico- filosofico; “Accidentalmente, / mentre geme / una cosa, si sfigura. / Senza cagione / che non sia / quello spasimo / stanco nei decenni. / Sminuire l’aurora, / aver in confidenza / il crepuscolo, / e quante voci accanto, / nel restìo”: questo lungo respiro ci evoca la prossimità altera con il dolore dell’invecchiamento ma anche la certezza d’una parola che sa resistere, nuda e cagionevole, regina nella sua inguaribile lacuna, dentro l’inguaribile vita. Tra questi versi ho riscontrato in filigrana tutti gli antichi temi e cadenze da lui precedentemente attraversati. Dopo più di quarant’anni di tenace “veglia” poetica, ora Cagnone non può più viversi come il giovane inflessibile e insofferente che intona il dire austero di Andatura (“le vie si oppongono porte sottili”; “onda sorprendente ritornata, / nelle pieghe pazientissima spina”), ma l’uomo che vuole conservare il regno dell’invisibile non su un illusorio trono di astratti pensieri e ragionamenti ma ben vivo e sensibile tra “cose di lunga ombra”, ridendo sommesso sul palcoscenico della vita che mentre scrive continua a disfarsi. È dunque finito “il vocabolario dell’estate, la solidarietà / del mondo conosciuto”, e Cagnone ora avverte che “per giovarsi della poesia, basteranno intuito, sensualità, istinto associativo – virtù che meno d’altre tendono a inaridire” (Discorde). Sa di raccogliere un’eredità classica e arcaica insieme, che in lui perdura sotto forma di eco, e anche di fedeltà a una certa asprezza discorsiva di un Gerard Manley Hopkins e alla meditazione mai lirica di un Novalis. Sa conservare con ostinazione le sue lacrimae rerum: lacrime ormai raffreddate sul ciglio asciutto ma pur sempre quelle di un guerriero (Nunzio? Testimone?) che ha visto ciò che non doveva vedere e versa i suoi preziosi ricordi di un lontano strazio nell’orecchio di chi, solo, è degno di ascoltarli: “Guarda / il pendio dietro di te / per tramandare”.
Mai espressionista e mai autobiografico, Cagnone è amaramente riflessivo, padrone di una lingua trasfigurante, artefatta e nitida insieme, che acconsente, sempre a testa alta, al’inesplicabile Mistero. “Quando lontanamente / si studiano ferite, / incomprensione / soltanto, che addolora”. Questa lontananza tiene sempre il lettore di Cagnone in bilico: chi legge la sua poesia non sa se e come accoglierla, perché senso e suono sono inestricabili (la poesia greca dei classici insegna) nella loro risentita mescolanza. “C’è chi preferisce il pieno e chi il vuoto – io tengo per me il cagionevole sentimento del vuoto” (Discorde).
Ricordo certi film di Kurosawa e di Kitano (autori molto amati dal Nostro), sospesi felicemente nella vana attesa di un evento che forse non accadrà o che è forse già accaduto: “Una delle virtù di Kitano Takeschi è il suo darsi tempo: stare fermo-zitto ad aspettare, quasi dovesse completarsi da sé, l’inquadratura” (Discorde). E Cagnone si dà tempo. Continua a scrivere una poesia misteriosa e insieme lucida, potente come un oracolo e leggera come una piuma, incurante delle mode e dei suoi contemporanei, libera e autentica perché opera di chi è libero e autentico, e ha traversato l’esistenza non facendosi imbrigliare dalle convenzioni, umane e letterarie. Come scriveva in Armi senza insegne: “Se queste parole chiedono / egli non ha risposta, poiché / il viandante respira come uno / che dorma quietamente”, lui, wanderer solitario del proprio viaggio, non spera né intende ritrovare se stesso: Itaca,ormai è sprofondata da un pezzo nel mare del noto e dell’ignoto. “Non volevo / venire, non volevo / che un vento, / una resurrezione”. Seppure riconoscendo che ogni inizio “è atto di luce”, la sua sola domanda precisa e ineluttabile è: “E ora, / con me, dove vado?”.
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