Su Cagnone, seconda parte
di Fredi Chiappelli
   
Fredi Chiappelli   A qualunque grado di timidezza o arroganza siano situati i conti della teoria, il quoziente che mi attira a leggere, rileggere, portare a memoria o a cuore una poesia è quel che essa comunica. Il ‘contenuto’ è in verità una componente secondaria del meccanismo comunicativo, ed è perciò legittimo che il poeta lo sottoponga più spesso di quanto non si creda a processi ermeticizzanti. È però componente indispensabile come veicolo della forma, la quale giunge a noi una volta che le varietà di ermetismo, da metonimico a grammaticale, sono ragguagliate abbastanza al nostro pensiero da consentire l’effetto di comunicazione. Raggiunto il quale, la materia contenutistica rimane inerte; non è il contenuto del variare della stagione che ci strazia nella figura di Leopardi “...tu pria che l'erbe inaridisse il verno...”, non è la cartolina del Rodano, dove la sua valle è luminosamente dolce, che ci lascia senza fiato nell’immagine di Petrarca “...o soave contrada, o puro fiume...”.
Leggendo esempi di poesia moderna, ed attratto dalla qualità intelligentissima che distingue quella di Cagnone, percepisco con il voluto sgomento ermeticità calligrammiche, sintattiche, metaforiche, di sinestesia. Inoltre, mi pare che siano imposte a contenuti ridotti già essi stessi ad un massimo di situazionalità anche nei processi di fondazione dell’opera poetica, cioè prima ancora dei montaggi di processi formali. Da un volume del 1988 (Coliseum, Milano), scelgo un esempio.
Le due poesie seguenti presentano, come molte altre della serie, ritratti di momentum, questi due in femminile, e il primo di essi ‘parlante’, cioè con una imposizione di ermeticità così metodica da rivelare senza troppo sforzo interpretativo i suoi principali procedimenti, in grafia, punteggiatura, sovvertimenti dell'ordine delle parole, sintassi del costrutto e del periodo (particolarmente nell’interpretare le possibilità della subordinazione), analogia, figure favorite (per esempio, ossimoro, paradosso), intellettualizzazioni che mirano a far convergere fantasia e intendimento nel concludere del poeta. La seconda invece, esige (per me) congettura ed uno sforzo di ricostruzione preliminare al libero rileggere.
Alla prima potrebbero esplicativamente precedere quale insegna le parole dell’Evangelo “E la madre custodiva in cuor suo tutte queste cose”:

difficile madre, imminente,
da cui mosse
nella continuazione si riflettono
da lontano forse parlano
cose che non si deve
porre alla lingua.
senso per somiglianza incustodito.

La seconda è complicata da voluti equivoci, per esempio fra temporalità e modalità, e da maggiori richieste alle leggi di dipendenza:

si scompone si avvia
se poi rimane,
senza idea vedersi agli occhi
insonnia di apparire;
tali, senza misure,
che alcuno non regga
anziane stoffe tramestìo
e tacita indivisa
posizione influente,
quietamente come li inonda
il soffio almeno.

Convinto dalla pausa che la rima interna di quietamente crea con influente (composto di fluente) nel penultimo verso, sento probabile l’importanza del come, quasi certamente polisemico. Lo avverto cioè teso a creare sia un senso modale che uno temporale: “come quando il soffio li inonda”. Sento probabile anche l’intenzione di estremo diminuendo affidata ad almeno, forzato com’è in posizione di tocco finale. È una posizione che lo lascia calare prima in un possibile costrutto quietamente almeno... come, esprimente una quiete mossa appena da un alito di vento, e poi in un possibile costrutto almeno il soffio cioè in una modalità di quiete, qual è quella della massa di una capigliatura che appare non inondabile, statuaria nella sua gravità se non per la ventata. Situato in pianissimo ed in equivoco, l’almeno deve servire ad avviluppare vari effetti compatibili e concomitanti, in maniera da cogliere il momentum della voluta immagine.
Quest’immagine si concreta verso la fine della composizione in virtù di un procedimento d'inversione dettato in un impeto di concordia dalla fantasia e dalla logica conclusiva inerente al comporre, che è procedimento frequente nella retorica di Cagnone. Se parto quindi pedissequamente da essa, quel che mi si profila nella poesia è capigliatura e figura femminile in vento, un’accezione di tema che ha dato per esempio il corpo che raggia infingardo di una delle ventilate fanciulle di Mario Luzi. Ma, risalendo il poema, si fa chiaro che a Cagnone, e quindi a noi, importa non tanto la scelta di espressioni calzanti all’oggettto da proiettare nell'opera, quanto la sintesi del suo assorbimento nel poeta, e quindi di espressioni che si lacerano vicendevolmente nell’avvilupparsi in cadenze, e si sostengono vicendevolmente al limite adesivo del genio linguistico.
Nel loro insieme fragile e franto portano la cedibilità della lingua al suo massimo di tensione possibile, e talora di suggestiva rovina. Il ritratto che scaturisce ha la natura dello spasimo, non necessariamente solo doloroso o festante.
Di tal genere. se non tali appunto, erano i pensieri che condussero all’esperimento di analisi tradizionale applicata ad un testo contemporaneo, presente accanto a questo testo.
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