Nanni Cagnone
L’insonnia della superficie

di Enrico Cerasi
   
Enrico Cerasi   “Guardare altrove sia la mia unica negazione”, si augurava Nietzsche nel 1882, durante l’inverno forse più doloroso della sua esistenza. Non lottare, non opporsi al brutto: volgere altrove lo sguardo, là dove si possa soltanto affermare, rendendo più bello il mondo. Non saprei dire fino a che punto abbia dato corso al suo augurio. Negli scritti successivi al 1882 (per esempio, in Genealogia della morale o nell’Anticristo), si direbbe che il ‘brutto’ abbia attratto infine il suo sguardo, che la negazione del proprio opposto sia divenuta la passione principale.
Si direbbe che in qualche modo l’opera di Nanni Cagnone abbia realizzato qualcosa del programma della Gaia scienza, e accolto il senso degli scritti inglesi di Wittgenstein, in cui – qualunque cosa si pensi del problema del linguaggio privato – troviamo una più che nietzschiana presa di distanza da ciò che vorrebbe ricondurre il reale alla sua condizione di possibilità, logica o metafisica che sia. Il grave errore commesso nel Tractatus era la pretesa di ricondurre il linguaggio alla sua forma logica, per meglio giudicarlo e correggerlo. Libera da questo errore, la scienza di Wittgenstein diviene – se non proprio gaia – per lo meno serena, giacché l’inquietudine prodotta da ciò che si cela nel fondo, dietro l’apparenza, si risolve una volta compreso che nulla si nasconde dietro i giochi linguistici mediante i quali ci troviamo a far esperienza delle cose.
“Non c’è alcuna profondità in poesia”, scrive Cagnone. “C’è, tremenda, l’insonnia della superficie”. Prima del ‘tremendo’ di cui si annuncia la presenza, sarà bene considerare l’affermazione principale. Tornano alla mente alcuni versi di The Book of Giving Back: “Solo superficie, polvere soltanto, / ma inattesa polpa incantata / dell’autunno, se passo / qui dov’è il mio peso / come un segno in un libro, / una risposta [...]. Niente, neppure una parola. / L’oro guarda l’argento”.
Solo superficie. La profondità è un’illusione prodotta dal rapporto asintotico che inevitabilmente le parole intrattengono con le cose. “Poesia è questo intervallo fra noi e le cose. Potremo mai riunirci? Non restare al di qua, fermi nella penosa somiglianza, e non al di là, nell’astrazione povera, ove in solitudine s’impara il frutto auto riflessivo del linguaggio”.
Il linguaggio è il mezzo con cui cerchiamo di raggiungere quell’intimità con le cose che forse non abbiamo mai avuto o che si è irrimediabilmente perduta cominciando a parlare.
“E penso ancora all’hapax lucreziano ‘vocamen’ – un nome per vocare, una ‘chiamata’. Mi fa temere che cosa nessuna si lasci dire, se non saprò invocarla”. Di una ‘chiamata’ parla anche il maggiore dei romanzi di Cagnone, Comuni smarrimenti. Johannes, giovane studioso di Ostenda, viene invitato a tenere una conferenza a Runi, ma dovrà presto accorgersi che il ‘chiamante’ non c’è; tuttavia, tale chiamata proveniente da nulla lo spingerà a inoltrarsi sempre più in quella strana città in cui sopravvivono le caste, si soffia il vetro e si venerano i giardini.
La trama del romanzo ci riporta alla “tremenda insonnia della superficie” da cui avevamo distolto lo sguardo. C’è qualcosa di tremendo in Comuni smarrimenti, ma ciò che lo rende uno dei maggiori romanzi del secondo Novecento è, tra l’altro, la constatazione che in esso non vi è nulla di nascosto. Un’irreparabile crisi della tradizione sacra, l’anomia, l’espulsione sacrificale dell’eresiarca. Forse Girard vi troverebbe materia per ribadire la violenza sacrificale come origine nascosta dei miti e delle tradizioni religiose, ma non è questo il tema del romanzo, nel cui incipit si legge: “Vivere, non è abbastanza. Perché la vita sia degna d’essere vissuta, a questa nudità si deve aggiungere tutto. Allora si finisce di giocare, si studia, si viaggia, si lavora, si fanno affari, si prende moglie: il romanzo della vita adulta”.
Il romanzo – anche quello dell’esistenza – non è un testo da interpretare.
Non vi sono regole a cui uniformarci, nemmeno ‘grammaticali’: “Laggiù / sanno quel che devono, / senz’invidia d’accadere, / laggiù si giace in molte lingue / (nessuna grammatica però, / né scontentezza di legami) [...]”. Nell’inconcluso sforzo di conoscere chi o che cosa l’abbia portato a Runi, Johannes s’imbatte nell’enigma della propria origine: la scopre ‘non-finita’, frattura che ci precede e che – una volta allontanati – continuiamo a guardare. Anche Johannes avrebbe potuto scrivere queste parole: “Ci sentiamo dei posteri, arrivati a cose fatte, troppo tardi, e rassegnati a interpretare le cose antecedenti. Pure, in certo modo, ogni adulto si trova in questa condizione”. Benché la nostra condizione non sia quella di Johannes, il suo smarrirsi è anche il nostro. L’origine – chiamandoci – ci perde, ma in questa perdita noi stiamo, consistiamo.
Credo che gran parte dell’opera di Cagnone parli di questo smarrimento: “Siete nati in vincoli, Homines / de Altari, a un esilio / senza derisione: un torchio / vi precede, un’obbedienza [...]”. Esilio significa separazione, distanza dalle cose come dall’origine. La poesia è “l’esperienza d’una fedeltà: quella d’un Dire che non vorrà mai lasciare il suo Taciturno amante”: taciturna è l’origine, e taciturne le cose che sempre ci guardano e non possiamo mai raggiungere.
Parlare di solipsismo non servirebbe a comprendere l’opera di Cagnone, che non è una variazione sul tema della Lettera di von Hofmannsthal. Se ci sono “doveri dell’esilio”, la solitudine della nostra opera non è completa. “Il ‘reale’ è una presupposizione incompleta, un antecedente che non si può portare a compimento”. Ma incompleta è anche la presupposizione del nostro esilio. Non vi sarebbero doveri, forse neppure smarrimenti, se così non fosse. Anche nella “patria offuscata, vuota”, si ha notizia d’avventi che la poesia non può tacere: “Qualcosa di semplice – / una barca che perde / l’alleanza dello sguardo”.
In altre parole, poeta “è colui che si oppone alle sue nozze”, eppure la poesia è “l’esperienza d’una fedeltà”.
Chi sa che “il ‘reale’ è una presupposizione incompleta”, sa incompleta anche la solitudine a cui il reale ci consegna. Non si tratta di vagheggiare una speranza conseguente all’irrompere di “un dio che nasce, un altro che vorrà per sé tutto il tempo”. Non è questa la speranza che s’intravede nell’esilio; diversamente, ricadremmo in quell’errore di prospettiva che induce a credere che ci sia una profondità, nelle cose, per poi redigere una grammatica che imponga una norma. Invece, “è come se, avendo sognato, volessi sostenere il tuo sogno nella veglia”, e “tornare altrove, senza intendimento”.
Il sogno, una delle più tenaci presenze nell’opera di Cagnone, si fa portatore di figure che, senza interpretare, possiamo accogliere nell’esperienza. In fondo, non si tratta che d’imparare a guardare, abbandonando la convinzione che le cose debbano dar prova della bontà dei nostri presupposti. L’opera di Nanni Cagnone – poeta, romanziere, traduttore e saggista tra i maggiori di questo nuovo secolo – vuol dirci che, anche nell’esilio in cui ci troviamo, con i dolori che mai riusciremo a dire, “questo posto va bene / per guardare il tramonto”. Questo posto, l’esilio in cui ci troviamo.
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