Su Cagnone, prima parte
di Fredi Chiappelli
   
Fredi Chiappelli   Le tre principali tappe che Cagnone ha voluto segnare nel suo primo corso sono esemplate nelle tre parti di What’s Hecuba: ‘Obstupescit’; ‘See Figure’; ‘Out and Down’.
Il titolo della prima parte di What’s Hecuba è Obstupescit. Se l’allusione è al Turno Virgiliano, che “obstupuit varia confusus imagine rerum” (Aen., 12, 665), l’indicazione disiecta membra, che compare nella sommaria introduzione a questa parte, deve rinviare a quella Satira in cui Orazio parla del turbamento dell’ordine delle parole; e di come, anche se la disposizione degli elementi poetici è ricercatissima (per esempio, per ragioni prosodiche), ciò non implica necessariamente che vi si trovi una sostanza poetica: “non [... ] invenias etiam disiecti membra poetae” (Sat., I, 4. 62).
In atmosfera di de-costruzione (il libro è del 1975) il trivium, quale viene presentato qui, consiste d’una specie di collaudo rispetto alla grammatica, dialettica e retorica: l’autore procede ad una metodica riduzione verso lo zero dei rapporti grammaticali, ad una sistematica ipertensione della dialettica, e a sfidare insistentemente la retorica perché essa verifichi delle ‘figure’ reali. Questo terzo esercizio è meno evidente degli altri ad occhio nudo; inoltre, esso dimostra meglio degli altri che l’intento dell’autore non è solo sperimentale (e tanto meno è da confondersi con esibizioni plateali); proveremo quindi a mostrare quel che intendiamo con un esempio che lo concerne.
Si dia il tema, non particolarmente peregrino, del contemplare un’immagine — una foto, una tela; e dell’avvertire, per intelletto e sentimento, lo spazio che interviene fra tale sostituto materiale e la realtà assente una persona, una scena. Giacché per Cagnone “soggetto è la relazione”, importa scoprire per quali ‘figure’ possano connettersi le due entità che determinano la situazione. Si dice che per Cagnone il “soggetto è la relazione” (v. H., p. 136); s’intende che fra l’oggetto reale rappresentante (che può essere anche la parola, il modo di esprimersi) e l’oggetto reale rappresentato si produce normalmente un effetto d’illuminazione reciproca, che per il poeta è d’interesse primario. Dice Cagnone medesimo, nella sua breve introduzione alla parte di Wha’s Hecuba in cui si preme sulle forze della dialettica: “il testo non è da sottrarre alla relazione: […] doppiezza di ciò che l’incontro arreca e ottiene” (corsivi nostri). E, più generalmente: “Ogni testo implica l’interrelazione d’un soggetto/discorso con un fantasma”. Fantasma egli chiama, mi compiaccio di credere, quel che è stato chiamato fantasma anche nel mio saggio Fantasma ed espressione nel Tasso. Il teorema è proposto, mi sembra lucidamente: “Data una fotografia (minore-di, parte rispecchiante) in luogo dell’originale (maggiore-di, tutto rispecchiato) la simmetria che questa conduce è il chiasma della reversibilità” (H., 136). Benché poi la mezza pagina di variatio-explicatio alterni perspicuità geniali con bruciature (entrambe dovute al superimpiego degli strumenti dialettici), il proposito risulta riuscito: si giunge a percepire “il chiasma forsennato che incrocia presenza assenza” (H., 136). Il mordente e il ritmo di questa sintesi mostrano che il procedimento retorico (qui il chiasmo) è stato forzato a verificare una realtà dell’esistenza; è stato quindi collaudato come capace d’essere veramente paradigmatico.
Perché procedere a così duri controlli? Perché l’armonia, secondo Cagnone, non risiede nelle cose, e non risiede nelle parole: ma fra i due estremi vien liberata dal poeta, proprio per grammatica dialettica retorica: “Solo chi ha la parola schioda l’armonia nascosta” (H., 140). E quali risultati daranno così duri collaudi? Grandissima parte di Hecuba, a mio parere (e spero che qualcuno mi correggerà) rimane un libro segreto. Come una Vita Nuova, esso offre l’identificazione d’un tirocinio esclusivo, d’una decisione irreversibile, e d’una preparazione integrale. Dei singoli risultati poetici che vanta, non pochi rimangono (a me) oscuri se non addirittura inesplicabili; ma in non pochi, d’altronde, si legge l’anelito a dire quel che non fu mai detto d’alcuno.
Il più ovvio (ad occhio nudo) dei tre esercizi (la de-costruzione grammaticale) va riconsiderato alla luce del principio dell’armonia (“solo chi ha la parola schioda l’armonia nascosta”). L’escludere dalla pagina l’enunciato di giunti grammaticali d’uso, forse perché sospetti d’usurpare il ‘senso’ (come la retorica la ‘figura’) è per Cagnone, se mi si consente la profezia, in buona parte provvisorio. È una prima maniera d’affermare che l’armonia non è inerte nel significante ma è altrove, e a questo pensiero corrisponde, all’altro estremo correlativo del chiasmo, la convinzione che l’armonia non è inerte neppure nell’avvenimento vissuto, nella molecola biografia.
Dopo una generazione poetica che s’è sforzata di stigmatizzare l’occasione, ci troviamo di fronte all’intento di cancellare l’occasione. La scoperta d’un modo in cui grammatica dialettica e retorica convengano ‘armonicamente’, e non per mero trivialismo, è l’invenzione d’un caso espressivo in cui non solo il trivium è riempito d’esistenza, ma in cui l’occasione esistenziale, assorbendovisi, è consumata, construtta. Il testo, si dirà in una frase che par sibillina (in H., 141), “dà il caso variante che costa l’origine”. È quindi vano tentar di risalire ad un ‘fatto origine’, il chiosare come gl’ingenui commentatori (per esempio del Petrarca), ‘Si lamenta il poeta’ ecc. Ma non è vano tendere verso il ‘significato’ dell’occasione, il residuo vivo di comprensibilità che ancora irraggia da essa, con un movimento che propende ad oltrepassare la superficie del ‘significante’ verso quello spessore di realtà esclusivamente poetica da cui l’armonia potrà schiodarsi.
Dei modi in cui il testo giunge a dare “il caso variante che costa l’origine” (o di come procede “chi ha la parola” nel suo intento di schiodare “l’armonia nascosta”) presumiamo additare un esempio. Nella prima parte di Hecuba si esperimenta come oltrepassare la rigidezza del giunto sintattico (o, se vogliamo seguire i termini di Cagnone medesimo, si tenta di “contestare il privilegio frastico”) col sospendere le parole in una fluttuante ma non arbitraria partitura ("disiecta membra") come in sculture mobili di Calder. Un gruppo di elementi oscilla in una pagina altrimenti vuota:

[…] poi che resistiamo
solo nell’ottativo
— altro lo dissolviamo

e le parole che esprimono un resistere nel modo del desiderio sembrano compresse da masse di reticenza; oltre a non esser riferibili a nessuna circostanza, oggetto, o qualifica (in quanto sono addensate per esprimere un assoluto), esse finiscono per non esprimere al lettore se non la nuda meccanicità d’una dinamica che si ripete: resistiamo nel desiderare, dissolviamo tutto ciò che è altro, resistiamo, dissolviamo... Ma un tono si è liberato per comunicarsi, e condizionerà – come in un mobile di Calder un modulo bilancia e condiziona gli altri – il gruppo d’elementi che oscilla nella pagina seguente:

e quando tutto viene avvicinato
(la consueta offerta del seno a un infante)
ciò che resta sicuramente fuori
grida più totalmente
la prolungata assenza della veglia

Se i due gruppi siano a sé stanti, o siano legati come elementi strofici, è tutt’altro che sicuro; e del resto non è molto importante dichiararlo. Essi sono stati disposti così e questo conta; il loro rapporto ‘strofico’ è soddisfatto dall’interno, come il ‘chiasmo’ di cui sopra. Quando all’ottativo segue la possibile soddisfazione dell’offerto, la consequenzialità dei due fatti primordiali è paradigmatica, anche se la loro proposizione linguistica non è fattuale. Si tratta, è detto, di un’offerta assoluta come può essere il seno all’infante, l’infante che quello solo immagina attende e desidera; relazione per cui l’assoluto che appariva nudamente opaco nel primo modulo (l’assoluto di “resistiamo / solo nell’ottativo”) di rimbalzo si colora di vibrazioni, nelle quali sono preservate le essenze significative di qualifiche, oggetti, circostanze. E d’altra parte il suo tono, prodotto dalla ferrea dinamica dell’insoddisfazione, va ad addensare e oscurare il “ciò che resta sicuramente fuori”, il modularsi dell’altro, che non si dissolve senza sprigionare un assordante campo di grida.
L’intento di spingersi nella sua zona fra lingua data ed episodio accaduto è così caparbio che Cagnone accetta anche il prezzo di semi-dire, come gli accade (almeno per il mio orecchio ormai duro e certo troppo abitudinario) anche in questi versi che ho tentato di comprendere e che ammiro. Ed è ancora uno stadio di sforzo così privato, che è pressoché inutile procedere a distinzioni analitiche di procedimenti.
Ma poco più tardi, già nella serie Andatura, che ho conosciuto in occasione d’un convegno newyorkese (The Favorite Malice, New York 1979) la poesia di Cagnone comincia a spiegarsi in sistemi suoi, riconoscibili, e si avvia ad effettivamente frequentare le alterazioni del trivium per cui ha deciso di optare.
Le classiche operazioni retoriche d’incisione nella lingua, quali l’iperbato/inversione, l’ellissi o l’ossimoro (e loro derivati e tributari) sono generalmente e costantemente riconoscibili alla base d’ogni testo poetico, anche se presentate in foggia antitradizionale o con intento sperimentativo.
Rimane quindi discriminante, per l’apprezzamento e il giudizio, la competenza con cui l’operazione è concepita ed eseguita. Nel quadro contemporaneo, che come ogni quadro generazionale pullula di serafiche arbitrarietà, Cagnone non si distingue solo per il suo caparbio intento di rigenerare la retorica; il suo scrivere si distingue anche, dal punto di vista strettamente tecnico (anche se in essenza inseparabile dalla più ampia prospettiva in cui si vuole comprendere il ‘mondo poetico’), per una perizia esecutiva tanto raffinata in arte e mestiere quanto ardita e sicura nell’istinto. A complemento di quanto accennato sopra, per mezzo della fittizia e semplificatrice allusione a Calder, si precisa: la misura dell’operazione espressiva è determinata non solo dal proposito concettuale e figurativo, ma dalla natura del tessuto linguistico su cui si esegue, dalle pressioni dei sistemi retorici limitrofi, dalle condizioni create alle varie periferie di quel che vien chiamato sommariamente il contesto; ciò in virtù di entità espressive relazionate, per assestamenti sia sintattici che lessicali, fonosimbolici, ritmici ecc.
Ciascuna delle numerose procedure possibili non solo offre un margine opzionale ad essa inerente (l’inversione, mettiamo, può essere più o meno spinta all’interno d’uno specchio dato di comprensibilità), ma l’elasticità del tessuto linguistico che la sopporta non è data; essa muta per influenza delle servitù concomitanti in quel particolare ‘contesto’, creando altrettante attuazioni ‘uniche’, ove la validità della decisione dell’operatore è proporzionale all’esattezza delle sue misurazioni. Quando Cagnone punta su una prolessi, iniziando una lirica con

Come ortica e lattuga, felce e felce
cammina intanto per tramiti

è perché intende anzitutto far prevalere la composizione delle immagini sopra la loro impalcatura logica: la quale, risalendo l’operazione inversiva, è basilarmente “Intanto cammina per tramiti come [possono essere] ortica e lattuga, [oppure] felce e felce”. Per ottenere la pienezza dell’esplosione immaginifica, l’artista ha dovuto praticare operazioni in ellissi, sia formale (tramiti quali possono essere costituiti da sterrati pieni d’ortica, ma anche occupati da misere e gentili coltivazioni di lattuga) sia sineddotica (felci che, in spontanei folti di sottobosco, si continuano in felci); e ha dovuto praticare operazioni d’elevazione metaforica a indici alti: da ortica ‘pungere l’epidermide’, ‘irritazione ossessionante’ fino all’espressione d’un doloroso squallore. Onde il tema individua la sofferenza individuale nel simbolico percorso e contatto, e il non meno simbolico scenario suburbano, nella pur naturale luce grigioverde che sprigiona la flora delle rovine, di contro all’opposta brama di spazio selvaggio. Già qui il lettore percepisce il problema brutalmente artistico dell’allacciare un risultato d’addensamento simbolico come ortica ad un risultato corrispondente come lattuga (lasciando per ora da parte l’analogo ma non omologo felce e felce); e il lettore, misurando l’elasticità possibile delle due parole, può ponderare quale grado di sicurezza conoscitiva l’operatore dimostra – e se (col provvedimento di disarticolare i due sostantivi e di premetterli ai loro sostegni logici) riesce o non riesce a incidere sulla pagina e sulla retina mentale di chi la legge due effetti indipendenti e indissolubili.
Ai miei occhi, i due quadri rivelano, sia pure grazie a un processo di assorbimento comprensivo non immediato, anzi nettamente graduale (ciò che non mi dispiace affatto, e che mi è sempre accaduto con i poeti che mi hanno occupato di più) d’essere stati allacciati non solo al loro grado massimo di estensibilità metaforica (“ortica” e “lattuga” sono così spinti, tanto nella loro funzione d’allusività descrittiva quanto in quella della loro significanza metaforica, che se non fossero uniti cadrebbero probabilmente nell’incomprensibile) ma anche in comunicanza vascolare. Intendo che, forse proprio in virtù del plurale tramiti, che accomuna i due termini, tanto l’entità lessicale ortica quanto quella lattuga sono percorse da una medesima qualità tonale, da una medesima affettività, e sono portate a un medesimo livello di appropriazione. Perciò i due termini, ciascuno per sé ed insieme, acquistano un valore computabile in anni umani, un valore di durata espressiva provvisto dall’esperienza; alimentato cioè dal residuo dell’occasione cancellata, dalla remota, ma non inavvertibile, sorgente autodichiarativa della lirica.
Operazioni concomitanti all’iperbato, alle singole inversioni, all’ellissi, alla sublimazione metaforica, non mancano; la sequenza scenico-simbolica del primo verso è disposta secondo una procedura formale classica: la simmetria delle due congiunzioni parallele “ortica e lattuga”, “felce e felce”. Eppure, anche la configurazione simmetrica che riproduce lo schema lineare dell’esperienza, è subordinata a un’esigenza compositiva ulteriore: in questo caso, rappresentata dalla consapevolezza di un ritmo.
Tanto il valore di ortica quanto quello di lattuga, qui, risultano valori negativi. La loro somma, mirando a produrre l’immagine d’un suburbio vegetante in sterrati e orticelli, risulta nell’espressione dello squallore ambientale e sociale; e perciò comporta una perdita del valore positivo che lattuga avrebbe in sé, specie in opposizione ad ortica, e che scompare giacché il quoziente dell’addizionamento è negativo. Felce invece si moltiplica in felce, operando un trasferimento in ambiente vergine, l’umida e ombrosa abbondanza della foresta. Sulla simmetria apparente, quindi, domina il ritmo inerente all’azione; intorno alla dantesca metafora di cammina le immagini si dispongono in spirale senza fine, attraverso (tramite è ‘mezzo’ allo stesso tempo che ‘spessore’) vicende che non è tanto importante censire (‘pena’, ‘umiliazione’ o ‘esaltazione’) quanto riconoscere come legate e continue.
Come vedrà chi continua la lettura di quella poesia (ed eventualmente le postille che vi ho apposto nel capitoletto contribuito al volume The Favorite Malice) l’azione dantescamente metaforica del cammino è contraddetta nel corpo centrale della lirica, e finirà per produrre in finale un quoziente di notevole valore ontologico e di esemplare suggestione poetica. Qui basti arrestarsi all’inizio, che apre vedute rivelatrici su intenzione, metodi, e risultati.
La lettura della poesia di Cagnone, e la disamina delle sue caratteristiche e qualità, sono anch’esse, e saranno ancora, per anni, all’inizio.
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