Giuseppe Zuccarino | ||
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Rifrazioni | ||
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Schopenhauer formula un insolito paragone: «L’esperienza propria si può anche considerare come il testo; la riflessione e le conoscenze, invece, come il commento». Ma che valore può avere una simile distinzione per chi, dedicandosi al leggere e allo scrivere, tende appunto a far coincidere esperienza, riflessione e conoscenza? «Non si diventa scrittori [...] per scrivere belle frasi. Se uno sceglie la letteratura, questa scelta è già in sé, al di là delle motivazioni iniziali, una scelta totale e, in tal senso, e solo in tal senso, un impegno» (Danilo Kiš). Un discorso del genere vale anche per il critico, con l’aggiunta che per lui si tratterà inoltre di esplorare i margini del linguaggio letterario, ossia i punti in cui esso si spinge fino ad incontrare l’altro da sé (ad esempio, le arti visive o la filosofia) oppure si sforza di dire l’indicibile, di far parlare il silenzio stesso. I frammenti nascono talvolta in forma manoscritta, affidati al foglietto volante o al taccuino. Si tratta di un modo per suggerire il loro legame col corpo di chi scrive, ma al tempo stesso la loro apertura sull’imprevedibile. Attraverso l’iscrizione rapida e nervosa sembra infatti, direbbe Mallarmé, «che lo sparso fremito d’una pagina [...] palpiti d’impazienza, alla possibilità d’altra cosa». In un’intervista filmata, Duchamp definiva il gioco degli scacchi «una scuola di silenzio». La definizione si presta ad essere applicata anche ad altre attività umane: basti pensare alla lettura, che ugualmente comporta una mescolanza di piacere e riflessione. Infiniti sono i modi in cui si può raccontare un mito, anche per immagini. Così, in una lekythos attica vediamo Odisseo alle prese con le sirene. L’eroe è in piedi, legato all’albero della nave. Da entrambi i lati, su monticelli di forma cilindrica, stanno appollaiate, e rivolte verso di lui, le donne-uccello, che hanno petto, braccia e capo femminili. Fin qui nulla che possa stupire. La sorpresa è suscitata invece dal fatto che le sirene non si limitano a cantare, ma suonano: l’una una lira, l’altra un doppio aulos. Possiamo dedurne che, temendo risultasse insufficiente l’incanto della loro voce melodiosa, esse non esitavano a rafforzarlo con l’ausilio di strumenti. O forse – ma in modo assai meno canonico – che il loro vero scopo non consisteva nell’attrarre mortalmente i naviganti, bensì nel gustare appieno i piaceri della musica. Esistono dei punti di contatto tra i problemi affrontati dai poeti e quelli con cui devono misurarsi i critici. Ecco ad esempio quanto dichiara Paul Celan parlando delle proprie liriche: «In ogni oggetto osserviamo sfaccettature che mostrano l’oggetto da più angoli visuali, in più “rifrazioni” e “tagli”, che non sono affatto solo “apparenza”. Mi adopero a riprodurre in parole porzioni almeno dell’analisi spettrale degli oggetti, a mostrarli contemporaneamente in più aspetti e compenetrazioni con altri oggetti». Nel caso del critico, l’operazione da compiere è sostanzialmente analoga, anche se verte su dei testi letterari che occorre nel contempo descrivere-analizzare e trasformare-riscrivere in forma saggistica. In una lettera inviata dal Marocco, il ventitreenne Nicolas de Staël afferma: «Qui s’impara a vedere i colori. Io lavoro incessantemente e credo piuttosto che la fiamma aumenti ogni giorno e spero proprio di morire prima che si abbassi». Nell’osservare la mirabile produzione dei suoi ultimi anni, quelli che precedono il suicidio, non si ha il minimo dubbio sul fatto che egli sia riuscito a dare compimento all’auspicio formulato in età giovanile. Una celebre foto di Kafka lo raffigura così, secondo le parole di Roberto Calasso: «Elegante, chiuso in una redingote, Kafka porta la bombetta e poggia la mano destra sull’orecchio di un cane lupo che sembra un ectoplasma». Ciò dipende dal fatto che l’animale s’è mosso durante il tempo della posa, assumendo dunque, nella foto, un aspetto perturbante, quello di un «cane sfuocato e demoniaco». Lo scrittore praghese, però, lo accarezza senza timore, data la sua familiarità con demoni e fantasmi. Rivolge invece uno sguardo attento e quasi apprensivo al fotografo che sta fissando la sua immagine. Il frammento, già solo con la sua brevità, esclude ogni miracolo. Eppure non è del tutto superfluo. Anche per esso, vale quel che dice Marco Ercolani: «Scrivere allevia dal bianco del foglio». Tacere su molti argomenti può essere encomiabile, ma non sdebita rispetto a ciò che per se stessi è essenziale. In quel caso, «ciò di cui non si può parlare, va incluso in ogni modo nel discorso» (Nanni Cagnone). Quando un uomo sente, o è convinto, di essere fatto di vetro, ciò viene considerato un chiaro sintomo di follia (basti pensare al celebre racconto El licenciado Vidriera, incluso da Cervantes nelle sue Novelas ejemplares). Tra gli scrittori moderni, è ad esempio Artaud, non esente da disturbi psichici, a parlarne in riferimento a se stesso: «La sensazione di essere di vetro e frangibile, una paura, un ritrarsi di fronte al movimento, e al rumore». Eppure lo stesso argomento viene affrontato in maniera opposta da Valéry, che attribuisce al suo Monsieur Teste, figura della coscienza assoluta, la stesura del passo seguente: «La mia visione è così retta, così pura la mia sensazione, così maldestramente completa la mia conoscenza, e così agile, così netta la mia rappresentazione, e la mia scienza è così compiuta che penetro in me stesso dall’estremità del mondo fino alla mia parola silenziosa; e dall’informe cosa che si desidera alzandosi, lungo le fibre conosciute e i centri ordinati, io mi sono, mi rispondo, mi rifletto e mi ripercuoto, fremo all’infinità degli specchi — sono di vetro». Ma in fin dei conti questo conferma soltanto che la persuasione di aver raggiunto una lucidità totale è, a sua volta, una forma di delirio. La scrittura frammentaria, in quanto si nutre di altri testi, rispecchia il meccanismo stesso della lettura: accade spesso che, all’interno di un’opera magari molto vasta, la memoria individuale conservi, a scapito di tutto il resto, una certa frase, consentendole però di essere rivitalizzata attraverso il reimpiego. Come osserva Barthes, «ciò che resta del Libro, è la citazione (in senso molto generale): il frammento, il rilievo che viene trasportato altrove». — 2010 |
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