Giovanni Duminuco
Da La ferita distorta dell’agire
soccombe il corpo
l’atroce assenza:
fare la morte
  Che questa morte sventrata sottrae l’ipotesi del nulla, la necessaria negazione delle cose, il limite rincorso a tratti agognato abitato nel segno che precede la parola, il farsi continuo del verbo nel divenire molteplice del rapimento dove il bello non è che la sua parvenza e nell’attesa esitante si restringe il passo del giorno lungo la nota dei venti a me piú cari.   Che del vero non ha l’errore né il conforto dell’esserci tra le finzioni dell’umana assenza il gesto dell’ardire lungo la via del lascito, la scoscesa costa dei mutamenti dove ogni cosa giunge al limite e la sera incombe, tenue di colori nefasti, a liberare il vuoto della colpa.   Di spazi subalterni alla parola tra le pieghe consumate del sonno annovera l’errore il divenire nel mare mostro fino alla linea del nero: adombra il tratto del volto al cospetto del mondo, la fuga capovolta negli occhi chi ripresa la spalla ossuta del tempo: trattiene il lascito tra queste corde maledette che ci legano alle cose nell’attimo che trafigge il senso per abitare il nulla, nel verso di rassegnazione.   Nella preda dei giorni ripassati sulle dita incombe il vivere inatteso nel solco obliquo che percorre l’ombra, l’incontro riflesso tra le pietre consumate dalla cenere. È un momento assoluto il nostro negarci, vivere la contraddizione delle cose, ripercorre il commiato del dire, il senso dell’agire, come sovrapporsi all’inganno, il peso dello sfacelo cantato alle ossa, rimarcato nel sonno di morte o alla veglia consapevole.   Altro sole non cresce né illumina il bordo ossuto la pietra raccolta a stento: lima che scarna, adorna il verbo nei percorsi del giorno che inclina le mute sembianze del corpo, la forma del grido svelata alle radici che scavano dentro e nel petto restringono la via sanguigna, il rivo calpestato sulla pelle intristita.   È breve il tragitto della pioggia nel valico del sangue, tra le maglie di un corpo parlato ai percorsi della materia: divide il dire, scompone la scia ripercorsa, la piega invernale sulle assi scorticata, i gusci di pietra in un angolo per farne un fuoco, incendiarne i pori lungo la via dell’errore, nell’intreccio delle vite o nelle viti nodose che divorano le finestre: implora il canto, l’arco, la lira nella quiete scomposta avulsa ai mutamenti, l’ellisse vacante districata nel lungo oblio dell’ombra, ai sospiri sottomessi alla pausa del corpo per sottrazione di essenza.   Dei corpi divenire l’ipotesi irreale delle cose soppesate tra le mani attraverso immagini riproposte in una visione circolare, una sequenza ineluttabile di sguardi oltre le siepi: senza fiato, correre al riparo dalle spinte entropiche, le scritte sui muri, il timore della catastrofe imminente.  
               
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