Antonio Pibiri | |||||||||||||||||||||
Per metà | Pietra, nuvola, frutto | L’uomo con la bombetta | Canti del cane nel cortile | Alea iacta est | |||||||||||||||||
In punto di vita ecco ricordo che nel lavatoio di uno stalag si aprì una voliera: spremuti suoni sulla tavolozza degli allineamenti – erba sassifraga e pioniera –. Ma anche un ragazzo che salva la rondine raccolta dalle grinfie di un gatto; la lancia per aria, riprende il volo e per quel poco o tanto si esalta. |
Un dio che scorrendo il dito accende di roghi il mare, il viraggio piombo, coste a flagello. E con interna mano sostiene, cinge insieme le frane al mondo: un artigiano, cerchiatore di tini. |
Una sedia di legno per metà affondata nello specchio e il fango degli ulivi. Per un istante intravista: è simbolo, divinazione, destinazione al nulla? nella miseria di un riquadro il meglio di sé? O memoria che riluce all’origine della prima estasi, il primo orrore... la sedia affondata ai diluvi. |
La sola chiesa è il cerchio di terra povertà promessa e foglie che asciugano gli amanti, l’orgia radicale dei morti. Un albero piantato – radiale – nel mezzo, al suo crescere. |
Non l’io non l’amore era il punto più alto da cui cadere, ma ciò che inconfessabilmente credevamo d’essere scolpito a più riprese in pietra monumentale. Una delle strane forme in cui ci salviamo: il cielo non si occupi di noi, ci lasci cadere. Altro è resistere di una felicità colpevole? Edipo piange ad occhi chiusi proprio come la terra. Consolazione una mela integra e tonda sul capo tutta assorta in sé che non vuol saperne del sapore della tua bocca: ti sdegna, attratta solo dalla terra. |
Piante alberi si compiono col silenzio di tutte le pietre, navate che frangono la storia. Non sa che gli è volato via il cappello. La testa capocchia di spillo sghembo a un coagulo, sosta al sonno diluviàno. E dimentica l’eternità che ha buon viso al gioco di certi fiori che avvicinano la luce sul tavolo. |
Scendere per le scale del grido malgiunte, finta di niente. le nere secchiate. Pareti precipiti da ferme, in fondo al cortile. I piccoli verdivani recinti. Il cane inconfinato è lamento. solleva e dinoccola ai piani la voce lapillo quasi umano, oscura le fontane, scioglie la cera all’ascolto. Finestre, frantumi trascinano di sotto il condominio le torri di vertebre per il cieco intestino fin dove la luce delle carni decompone. Tuo figlio è l’unico la notte a non dormire. |
Tutti erano belli e nessuno – chiusi in pelle emersa da fondi di ere, bagni di concia. Ma la stasi d’oro e il mimo in strada cresceva la perplessità degli orologi. “Bambini, anatroccoli non seguite l’etologo sul prato!” Chi avrebbe raccolto il gomitolo della loro storia per terra? |
Dopo lunga esposizione alla notte le voci bieche, i duri becchi di Artaud rompono i pori della radio, in frantumi il servizio di cristalli, bilico precario sulla testa. Perdi le istruzioni, il gesto pezzo dopo pezzo, ornitorinco composito, venèfico cieco dappertutto. |
In un paesaggio a smemoria d’uomo il rumore disarticolato della natura, dalla goccia al tremore di canne, al mare completamente bianco, coro di babbuini o cetonie sul parterre, era il migliore silenzio di dio: il suo articolatissimo tacere. |
Il piccolo è tratto da disboschi e drenaggi. Sul foglio a quadri a righe di già perde il filo del seme. Ai comandi d’ingegnose paure s’incaviglia i pieni ondosi. Murate le bifore, non ha occhi che per questa coerenza – disamore. Smemora per tempo il suo segreto. Ripara sotto i colpi del caso. Hai disordinato le grandi lettere dell’infanzia, l’ideogramma. La A ad esempio era un tetto, casa con madre dentro. |
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