Enrica Salvaneschi | ||
Mai Sempre | ||
Nella piazzetta appartata, appena discosta dai negozi e prospiciente la via antica, vietata al transito delle automobili ma percorsa dai mezzi pubblici con una fermata obbligatoria in dotazione, vicino a un bar che avrebbe voluto essere un bistrot ma riusciva soltanto a ospitare le colazioni mattiniere e le meridiane pause impiegatizie; entro quest’area quasi quadrata, lateralmente inorgoglita o custodita – ovvero oppressa o dominata – da un’ampia, fornitissima, multimilionaria farmacia (prodiga, oltre che di rimedi e medicine, di illusioni cosmetiche, di abbigliamento comodo e costoso, di balocchi definiti non dannosi alla salute degli infanti e, soprattutto durante il servizio notturno, di paniche siringhe virtualmente letali alla salute degli utenti), ogni sabato e talora la domenica mattina, quasi a contrastare o dimessamente contrappungere l’ininterrotta apertura della gloriosa fiera farmaceutica, si vendevano a prezzo modesto umili piantine: gerani, fucsie, petunie, ciclamini. In piedi, al limite dell’umile variopintura, Sergio aspettava Mara, guardando alla scala di un marmo che aveva conosciuto migliori passanti, come mostrava un superstite, e ormai superfluo, relitto di cancello, da cui si dipartiva, già ornamento, una raggiera di frecce ferrigne, rugginosamente rivolte al cielo: un cielo di azzurro insulto, scevro di maestà, traviato tra i palazzi e docilmente arcuato in polveri sottili; lo disertavano i piccioni, che giravano stanziali raso terra, sporcando con intermittenza perseverante; lo disdegnava un gabbiano che, poco oltre, col becco adunco sorvegliava orgoglioso le occasioni di cibo, sovrastando il cassettone delle immondizie, nel sincretismo della trascendenza. La scala di marmo, trasudante un umore giallognolo dalle commessure, immetteva a una salita, erta d’ammattonato, inerpicantesi tra i palazzi dotati di una loro attrattiva scontrosa e irregolare; non antichi ma vecchi – anzi, vecchiotti –, spesso rimodernati e ampliati con brutte pendici abitative, talora nascondevano segrete sorprese: passaggi interni di solito celati da porticine che, pur quasi anchilosate, se dischiuse traforavano il clivo collinare e immettevano per scorciatoia nelle vie contigue, la cui pietra di sfondo si profilava allora come uno stralcio o una sorta di cielo, dolcemente grigio nel sereno, e piú sincero del cielo vero. La vide: giú da uno di questi menomi cieli di pietra, vide scendere Mara, puntuale e puntuta, priva ed erede di grazia, trasognata e decisa. I loro sguardi – attraverso le lenti già inspessite dalla reciproca miopia e ora in ossimòro ipermetro con la mala luce – sí: si reincontrarono. E occorse poco perché cadesse il diaframma dei decenni trascorsi – delle rapine vitali, della stanchezza imperante, del divario di esperienze, della fatica ansiosa di resistere, del mondo vissuto e diverso in un vasto patire e appassire e apparire – e solo restasse, lancinante e puro, il bene di allora: inerme come allora, e pur ora, piú che ritroso, riottoso in lei, schivo e mordace (audace?); convinto come allora, e pur ancora, commosso in lui dalla sua stessa manchevolezza, fermo e fallace. Ma (come di solito accade, pur nella ripetizione, in ogni penso ripercorso nel vivere), qualcosa di imponderato e insospettato si impose, quasi impercettibile: fu proprio la sorpresa dell’identico, che provocò in Sergio un disagiato stupore e in Mara una sorta di ironia felice. Sergio si meravigliava che cosí poco in lei fosse cambiato, come se invano l’invidia degli anni fosse trascorsa, e frustrata la soglia provetta di senilità: Mara era rimasta vasta e unilaterale, proterva e umbratile, come allora negletta ma non negligente, nella sua trasandata eleganza ed eletto trasandare regalmente plebea, mendicamente reale, perdutamente e unanimemente sola; parve a Sergio che solo le lacrime vive potessero e dovessero, rispetto ad allora, mancare dal suo volto, perché ormai immortalate, immedesimate, cicatrizzate nelle rughe che si irradiavano da e sotto gli occhi, con disegno tuttavia sottile, come una sinopia discreta. Ma lo stesso era il modo di ridere e sorridere e deridersi: affilato nei canini e cullato nell'avvallarsi delle guance; lo stesso era il gestire, tagliente e breve, delle mani sofferte in callida disarmonia tra la garisenda del dito medio e l’asinello dell’anulare, inospitale a ogni anello: a ogni segno e impegno di vita associata e (o) muliebremente adorna. Come allora, il suo gestire era nudo; e scambiati per errore, per privata tirannia, i nomi turriti apposti da Sergio alle dita. Di cuore avevano riso del lapsus, che era divenuto una loro cifra segreta: una menoma prova di come il linguaggio affettivo possa invertire il mondo, inventarlo per e nonostante l’errore, sí che la privata tirannia della scelta istintiva si rivelava capace di modularsi in possesso comune; diventava incorreggibile. L’imprevedibile, dunque, l’insospettato provenne a Sergio da questa continuità; ma proprio nella dolcezza di tale avvolgimento divenne chiara la consapevolezza decisa, dura, dell’impossibile. Troppo uguale alla se stessa di allora l’aveva ritrovata, e perciò tanto aggravata nella sua interiore malattia perpetua: cosí attaccata a valori elementari e cosí disattenta a quelli sociali, cosí lesiva di quelli politici; cosí incapace di vivere, e tuttavia ancora viva; cosí viva, indifesa e serrata ad un tempo, conservativa dei talismani antichi, mentali e oggettuali, e pure inaccessibile a quelle esigenze che l’avevano spinto a cercarla ora, a trovarla allora; a ricercarla per ingannarla, adamantinamente. I diversi impostori di letture lontane, quali exempla, gli tornavano alla memoria: il Morris di Washington Square, soprattutto, anche se l’ereditiera in questo caso non era tale, bensí un’innata chimera, foriera di pensieri in parole. E le parole erano vere e presenti, possenti tanto da spaventarlo. Spavento, sí, fu la sua reazione, razionalmente tuttavia sagace; e anche quando tale spavento divenne fobia, fu una fobia lucida e controllata, che portò, o quasi progettò, mentí e smentí, la fuga. Non per nulla, fuga e fobia sono l’una conseguenza e variante dell’altra; e forse i loro stessi nomi sono esito, e traccia, di un’unica radice basilare. Cosí, per Sergio la paura, accorto istinto di conservazione, rivelò con la fuga quale calcolo inerisse al suo fervore della nostalgia: paventare e fuggire un essere che era bene essere; un bene che, anziché fomentare, avrebbe minacciato e minato ogni sua decisione, ogni scelta di lavoro, ogni scommessa di successo, ogni adattamento vitale allo spirito del tempo. Fu, al di là del caso personale, la ripetuta lotta di sempre, astuta in sempre varie spoglie mimetiche: il tropismo contro l’autismo. Era questa, forse, la versione piú dura e propria del fenomeno elementare: il rivolgersi all’altro, da un lato (chiunque e qualunque esso si ponesse, imponesse: fantasia divina o umana idolatria); dall’altro, inutilmente tentata questa strada, rientratre in sé, nel proprio bozzolo ormai logoro e ribadita prigione. Tale formula, formulazione quasi esatta, Mara aveva cercato di mutare, nella vita trascorsa, di alleviare in quella di tropismo negativo (il proprio) verso tropismo positivo (l’altrui): in tal modo sarebbe forse riuscita a recuperare, forse a salvare, un legame di relazione, sia pure in absentia, con il mondo. Ma il tentativo era fallito e la liama non era giunta oltre la proiezione in parole della rastremata sua figura. Di tale disagio, di tale diagnosi, Sergio era ben consapevole; e quasi se ne volle vendicare. Si rese conto, in misura vasta anche se non esauriente, del delitto che stava perpetrando e ripetendo: quello di tenere per sé il proprio affetto, e, sfigurandolo in affettazione, di non parlarle piú, mai piú; di praticare, proprio dopo essere tornato, una rinuncia non falsa ma finta, per vendicarsi di lei: di quel legame che, reciso, a lui faceva male assai piú di prima; per umiliare ogni di lei speranza, ogni superstite e caro orgoglio di aver pur rappresentato, raccontato, contato qualcosa, almeno un nonnulla; per sradicarle dall’animo – dall’animo tanto mortale quanto invulnerabile – ogni inganno ritenuto e ritornato. Una volta, negli anni giovanili, le aveva detto: “Si parte per tornare”; ora, nella maturità senescente, le avrebbe detto: “Si torna per lasciare”. Ma non lo disse, bensí lo fece. E il silenzio fu un tocco di mondana maestria, un’aggravante della crudeltà impunita. Nell’antitesi che regge la vita e ogni vita, tra l’analogia e l’anacoluto, tanto meschino parve a Sergio il proprio comportarsi, da sortire un effetto di euforia sacrificale, di lieta lesione; ancora, fu il sempre. Se sempre vuol dire, come appare indubitabile, “ciò che attraversa l’uno”, ovvero “una (volta) per (tutte)”, inquietante distributivo dell’eterno, Sergio con tale sempre allitterava; volta per volta, nella lontananza e nel distacco, la sua memoria avrebbe ripetuto quell’inganno dolente, quell'abbraccio; e avrebbe baciato la mano protesa da Mara nell'ingenuo saluto – a poi, per sempre. Il bacio, invece di parole, era sincero: par cœur. Impossibile gli sembrava non piú rivederla; mai piú parlarle; ignobile, lasciarle pensare che si allontanava da lei, dopo averla ricercata e ritrovata, perché lei non metteva la propria intelligenza indigente a disposizione del di lui ingegnoso mercato, ma accettava la cara e avvenente speranza di offrirgliela come felice campione senza valore venale. Riconosceva l’abiezione offensiva del proprio comportamento e si chiedeva: “Come posso? Come posso essere cosí spregevole?”. E pure sapeva, nel fondo in cui abita l’etica come moralità e come erinni; sapeva, per le radici ignote del cielo in pietra serena cui Mara stava prestando la sua omeomeria di stelle morte lucenti; sapeva che quel male tra loro era stato e non era finito, non sarebbe finito; e che quel silenzio era un debito privo di perdono sullo sperpero e spreco della vita: illacrimata voragine, quella di lei, a fronte della propria, di un plausivo e mondano, soddisfatto nocumento. Écrivez-moi vite qu’il est revenu. Ma il disincanto rispondeva: Le revenant n’est pas le revenu. Le umili piantine sabatiche formavano un contrasto non grazioso con i grandi vasi di pitosforo che orlavano il marciapiede: il rigoglio degli arbusti dalle odorose eburnee efflorescenze non poteva sottrarsi ai mozziconi di sigaretta e ai frammenti di spazzatura plastificata che gli incivili inciviliti gettavano sul terriccio, come se il vaso fosse una pattumiera; ma, oltre lo sconcio della superficie, questo scorcio a ben altro sembrava alludere: ricordava che il nitore eburneo del fiore derivava da un seme di pece, custodito al di sotto della nicotina e della plastica. Per tante stagioni la terra disseccata aveva ritenuto quel seme, innocuo e passivo, quasi morto; poi, la voce era scesa entro codesta arida terra del cuore: come una pioggia minuta si era insinuata nelle crepe della disidratazione; l’aveva irrigata, nutrita con delicatezza, cosí come deve alimentarsi, lentamente, chi per lungo digiuno è ingracilito. La terramara aveva sentito ascendere la linfa di un tempo, arcaica e novissima; e piano, piano, sotto l’umore piovorno, muoversi i grumi e aprirsi le spore di pece. Ma era stata ingannata, si era ingannata, terramara del cuore invano persuasa al pitosforo: e la meta del bianco si era rivelata una farsa di galaverna, addottrinata e strinata dal sole rovente; oppure era il bianco del sale, rivoltato nella clessidra del sempre. L’identico fu l’imprevedibile: il nulla cambiare, il nulla cambiato, o forse scambiato, secondo il lapsus dei nomi turriti. Sommamente e sommariamente, fu ammenda del Sempre quale sfoglia del Mai. Silvio Endrighi [vd. Enrica Salvaneschi] gennaio-febbraio 2011 |
||
DIALOGUE | ||