Giuseppe Mazzaglia
    Il pozzo
   
  Si chiamava Emma Ciattalànga e a Catania nelle strade del quartiere di Cìbali i giovanotti – bastava si presentasse loro il destro – lanciavano la mano furtiva col fine di toccarle le nèspole (le mammelle) che, si diceva, fossero sode assai e larghe e appuntite. In questa bravata è difficile dire se i giovanotti ambissero più di toccare le nespole o di suscitare la scenata furibonda che ne veniva dal fatto che la ragazza era bella quanto rabbiosa e spiccia di lingua, impetuosa; correva loro dietro all’impazzata scuotendo la gran massa dei capelli fulvi. Era di voce rauca la bella e allorché inveiva (assistetti una volta alla scenata) il fragore come larghe grida di uccelli incantava quasiché, aprendosi in echi battenti da ogni lato, risuonasse direttamente dalle nuvole.
Nel 1931 avevo cinque anni e il sentimento profondo che mi portavo dentro per Emma Ciattalànga mi empiva turbandomi i giorni e le notti. I “ragazzi grandi” mi apparivano degli eroi, ammessi dalla sorte (dal loro essere “grandi”) a quello sconcio assalto, a quella sconcia fortuna. Erano grandi di età gli audaci (per lo più sedicenni) ma soprattutto sublimi – altolocati e autorevoli – nelle faccende. Tra di essi – onorati e temuti – c’erano nientemeno che Rocco Casòlo, Peppe Canàzza e Filippo Nasca. Erano queli del “crawl”, lo stile di nuoto veloce che gli ardimentosi ostentavano trionfalmente alla Plàia (la spiaggia di Catania) filando lesti in acqua come delfini. Filippo Nasca era stato il vincitore della Coppa Amedeo Ficarazza e veniva soprannominato “Dick Cavill” ; costui – Cavill – doveva essere un americano che toccava le nespole alle ragazze dalle sue parti, o un campione di nuoto. Mi tenevo dentro la passione forsennata per la ragazza e la stizza impotente dell’escluso. D’estate, nella spiaggia – alla Plàia – anziché affidarmi alla cura del bagnino Pampinella, preferivo andare con mia madre nel “pozzo”. Era, quella, epoca saggia e, nel rispetto della decenza, le femmine non prendevano il bagno all’aperto nel mare infestato dai bricconi – dai maschi – ma invece interamente coperte da apposito completo vestimento e dentro al “pozzo” che era una assai minuscola porzione di mare (un quadrato di circa dieci metri di lato) racchiusa entro pali di legno e allogata un po’ al largo sicché fosse possibile alle donne immergersi e nuotare avvolte nelle fasce di alghe nel luogo oscuro e sinistro. Ancorate ai pali che cingevano il pozzo e alla scaletta viscida in metallo dalla quale vi si accedeva, vagavano all’interno lingue di alghe come tentacoli di polpo; esse davano fastidio – orrore – soltanto a me, visto che tutte le femmine – e pure Emma Ciattalànga – si lasciavano avviluppare da quella animata e viva vegetazione. Nel tempo d’oggi che la trasgressione dilaga al punto di consentire le torbide promiscuità nelle spiagge così come il proliferare di ogni licenza, mi ricordo con nostalgia del fastidio viscido delle alghe e di quel luogo chiuso – il pozzo – in cui l’oscurità mi teneva prossimo a Emma frammezzo allo sciabordìo dell’acqua nera dalla qua e a tratti affiorava il seno della ragazza scandalosamente dichiarato dal tessuto grondante. Non osai di lanciare la mia mano verso le nespole tese perché ero timido, perché avevo paura di Emma e perché non ero uno di quelli del “crawl”. A un punto mia madre mi affidò alla ragazza, visto che non intendevo lasciare l’appoggio della scaletta di metallo per avventurarmi nell’acqua alta. Con il volto in fiamme, mi avventurai nel nuoto, convogliato via “al largo” tra le braccia di Emma e brancicando. Sentivo battermi la scaletta qua là tra le dita. Non era possibile pensare neppure alla lontana che urtassi in qualche modo le nespole della fanciulla. E che diamine!, quel che toccavo era – accidenti – metallo.

Ma sì, in effetti la ragazza ammirava anch’essa come tutte quei nuotatori veloci pettoruti e spavaldi. Compiutamente vestita, sostava volentieri con le amiche sulla piattaforma dalla quale si tuffavano gli animosi. Attenta, assisteva alle gare, curiosa di sapere chi, ogni volta, prevaleva in quello spettacolo di prestanza, di vigore, di impeti dai quali i concorrenti emergevano uscendo infine come esseri divini dalle spume ribollenti del “crawl”. Avevo sentito dire che era interessata a qualcuno dei “carusi” (dei ragazzi), e chi nominava Nunziatino Baldàscia e chi Santino Fantalòcchi di via Pietro dell’Ova, ambedue della partita delle nespole.
Ho nel cuore le grida della ragazza nelle strade di Cìbali e quel clamore incantato ribaltato in largo dalle nuvole. Emma, Emma!, percepire imperfettamente il senso della tua voce, cogliere, quasiché un assalto, l’onda colma violenta improvvisa della tua chioma arruffata. Trasalirne. Mutare, capovolgere, dissolvere, non so a volte che mi prende. Emma. In alto è il cielo bianco di nuvole: cerco la coda di un corvo o il becco di un mestolone migratore, qualcosa ove attaccare il laccio di una scarpa per andare e pendere con la testa in giù e veder tutto a rovescio.
DIALOGUE Pubblicato il 31 dicembre 2003 in “La Sicilia” di Catania.