Eugenio Lucrezi
Ovidiana
da mimetiche, Oèdipus, 2013
                 
Laura, tu fingi … Metamorphoseon liber I Lauro che dorme. Metamorphoseon liber I   Lo stagno di Salmaci. Metamorphoseon liber IV   Tra le gazze, e in Frigia. Metamorphoseon liber V, liber VI   Orfeo. Metamorphoseon liber X, liber XI  
Laura, tu fingi, non sai la cosa
che fugge, il calcagno che batte. Altre
le tue durezze. Neppure te la immagini,
la spina che ti lacera la carne.
Sei tu che buchi l’aria, tu che graffi
il polpastrello rosa, che pungi
l’addome fremente delle api.
  Lingua del fango, lembo di calore
dalla radica in poi, pianto all’insù
che inghiotte all’incontrario il suo secreto ...

... non c’è notte che questo non accada,
respiri senza affanno nel trambusto
del segreto che dai, fiore allo sboccio,
emergenza del sonno dall’arbusto,
lembo di carne in punta di corteccia,
batticuore di fusto.
  Atlàs generò Maia, che fu madre
di Hermés, che dalla Cipride ebbe figlio
Ermaphrodito dalla gote bianche
che pudicizia inonda di rossore,
così come il leggero moto dello
stagno di Caria, violato dalle piante
giocose del ragazzo quindicenne,
nudo alla fine, dopo che ha respinto
Salmaci, sola naiade non nota
a Diana la veloce. Non conosce
Amore il bel fanciullo , così come
Salmaci, che disdegna la faretra
e la cuspide acuta della freccia,
non segue le sorelle nella caccia.
Si tuffa invece rapida e sorprende
l’Atlantide che nuota nella fonte,
come serpe ferita lo avviluppa,
lo intesse come l’edera sul tronco,
come un vorace polpo lo cattura.
Segue trasformazione, come da
perenne ilarotragico spartito.
Non ci si raccapezza nella fretta
che digerisce e macina dolori,
esaltazioni, copule e vendette.
Masticazione classica dell’Evo,
rapidi fotogrammi dell’Antico,
Eros imperativo categorico:
un furia furiosa, che si placa
nella Figura nuova che si dà
una volta per sempre. A buona pace
del poeta Fortini o del cristiano
eterno capezzale del riposo.
  Tra le Pieridi empie e Calliopè,
eletta tra le Muse a misurarsi,
la gara non finisce in modo tragico,
se solo pensi al male irrimediato.
Guarda e riguarda, nel quadro che si aggiunge
a un dolore di suo già insopportato,
il perlucente satiro da sé
stesso retratto, pensa
che fece Apollo a Marsia ( ti ricordi
Capodimonte e l’indugiare nostro raddoppiato? ).
Nove gazze di fronte a nove muse:
rauca garrulità dove non mai
c’era voce soave. Tu sei prossima
all’unica tua voce: Calliopè
ti sorride, e così Apollo.
  È tranquilla pazzia la conduzione,
a brani quieti, a brani del disordine,
della mia spoglia, e prima della corsa
per sassi e per campagne impertinenti,
già compiuta per lascito, spogliata
dell’amata presenza abbandonata,
e in successione, poi, non immediata,
ma certa, anche di me, l’amante,
fatto cieco quantunque siano illesi
i globi ormai ammolliti, e siano intatti
i nervi ottici, dal chiasmo all’ombrellino
che sfrangia le sue dita sul velluto
del tappeto d’amore. La visione
presiedeva alla cetra, ed era autrice
dell’armonico fremito che fece
impazzire le menadi. Il furore,
Euridice, quasi non lo notai,
mi tolse molto meno del bisogno
di torcere lo sguardo per levarti
dal buio che ti aveva. Decollato,
arrivo a questa riva meno povero
di quando stavo sull’orlo dell’averno.
Lo sconforto di quante già mi lavano,
con ripetute lacrime, le resta
di ciò che fui, ancora non lo intendo.
Sento il suono tremendo
delle tue dita che raspano la cenere
dalla soglia dell’acqua, e la tempesta
del tuo seguito d’ombre.
 
DIALOGUE