Kenneth Gross
    Puppet: An Essay on Uncanny Life
Capitolo secondo, tradotto da Donatella Stocchi-Perucchio
   

  Una conversazione a Roma

Quando giungo alla galleria di Giuliano, lo trovo spesso intento a fare sculture di cartapesta, seduto al tavolo vicino all’ingresso mentre attacca strisce bagnate del Corriere della Sera su una forma grezza per fare qualcosa che sembra un cavallo altissimo o una testa umana allungata. Ci troviamo alla Galleria Don Chisciotte, quindi non c’è da meravigliarsi se tra le opere compiute sparse in questo luogo ci siano più versioni dell’eroe di Cervantes, inquietantemente allungato, crudo e fragile, a volte in piedi da solo con l’elmo e la lancia o a cavallo in equilibrio precario sulla groppa di un Rocinante fatto di carta. Vi è anche un re con lo sguardo fisso e attonito, un demone e un gatto con i denti seghettati. Vi è un Pinocchio dagli occhi selvaggi e il naso sottile e allungato e un minaccioso Mangiafuoco dalla barba appuntita--l’impresario della compagnia di burattini che, quando Pinocchio gli interrompe lo spettacolo, minaccia di gettarlo nel fuoco del cammino per contribuire alla cena. Tutti sembrano un po’ morti di fame e solitari eppure immensamente giocosi. Mi scuso con Giuliano per averlo interrotto mentre lavorava, ma egli, con la sua sottile sigaretta nera in mano, sembra contento di lasciar asciugare la colla di farina mentre parliamo.
Sono venuto fin qui a piedi dalla vicina Piazza del Popolo col suo vasto spazio ovale e la fontana al centro sormontata da un enorme obelisco – antica spoglia romana proveniente dall’Egitto – circondato da quattro leoni di granito che sputano acqua. La piazza è appena dentro le mura del centro storico, nel punto dove comincia l’antica via Flaminia fiancheggiata a est dalla collina scoscesa del Pincio dalla cui sommità si vedono i pini romani di Villa Borghese. Sul lato nord della piazza si trova Santa Maria del Popolo, una delle poche chiese rimaste a Roma del primo Rinascimento. È un luogo che conosco bene: in una cappella appena a sinistra dell’abside vi sono due dipinti di Caravaggio che vado spesso a vedere: immagini di un martirio grottesco e di una conversione violenta. Sulla parete sinistra della cappella vi è un quadro di San Pietro che viene crocifisso a testa in giù. Si vede la croce nell’atto di essere innalzata e tenuta su con sforzo da tre operai – uno che ne afferra la base, un altro che la tira con una corda e un terzo chinato, con il braccio principale della croce su una spalla. Pietro si sporge in avanti e si volta col collo e le spalle robuste tese nello sforzo di intravedere quegli operai. Piuttosto che straziato dal dolore, sembra svegliarsi dal sonno o essere in procinto di addormentarsi. Dirimpetto a quest’immagine si trova la conversione di San Paolo che raffigura in primo piano il persecutore dei Cristiani caduto dal cavallo, a terra sul dorso, le braccia alzate con naturalezza verso una chiazza di luce. Vicino, incombente su di lui, a riempire quasi tutto lo spazio restante del dipinto, è il cavallo bellissimo e immobile, la cui pelle maculata di bianco e marrone è inondata dalla stessa luce che investe Paolo mentre la grande testa pendula guarda tranquillamente in terra. Mi ritrovo a guardare e riguardare con intensità crescente, cercando di individuare un qualche rapporto tra i due dipinti: i moti verso l’alto e verso il basso, la direzione delle membra, la forma curva del corpo di Pietro che si piega e si torce per vedere la sua crocifissione e il collo e la testa curva del cavallo rivolti in giù a guardare Paolo. Le due opere formano tra loro una specie di campo magnetico che spinge l’occhio dello spettatore da un quadro all’altro, facendogli avvertire la gravità, pur rendendola sempre più strana.
     
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