Antonio Devicienti
SONETTO DEI DESTINI: PER LORENZO CALOGERO   SONETTO DEI DESTINI: PER HEINRICH VON KLEIST   BOMARZO   JAKOB BÖHME A GÖRLITZ   LA TABACCHERIA DI MAGLIE   OTRANTO   PENSIERI DI MARGHERITA PORETE NELL’ULTIMA NOTTE DI VITA   HILDEGARD   LA PAROLA MANCATA (OVVERO PAUL CELAN A TODTNAUBERG)   SETTE INTERNI   IN LODE DEL SONETTO  
Fabbrichiamo il nostro destino giorno per giorno, mente e mani immersi nel nostro proprio tempo. Guardiamo talvolta a destini già compiuti, in apparenza, ma che generosi si schiudono nuovamente per noi e con noi colloquiano.


Quando la solitudine s’addensa
fin nella riarsa cenere invernale
del focolare e i bicchieri, la credenza,
la mensa, la madia sono il sognare

delle cose di se stesse, ma senza
più traccia di presenza umana, andare
delle congelate ombre nell’immensa
casa sprangata all’attesa serale,

lanterna di controvento il mano
scritto, oscillante fanale del treno,
si consegna al passaggio per stazioni

deserte, fedele alle sue ossessioni,
segnato, ingravidato, scabro greto
di fiumara, spasmodico nell’eco.
  La scrittura nei giorni si dispiega,
s’ammùtinano o s’addensano i versi:
ali pentesilea non ha e annega
nel braciere annega degli universi.

Hanno posto l’assedio a Königsberg
ché dal Baltico, spinta non clemente
la scrittura, accampàti nella mente
tutti, tutti: guiscardo con von homburg,

kohlhaas ed alcmena nel risplendere
di luce nera e di kantiani soli:
reclamano esistenza per contendere

al mutismo dei giorni senza voli
la pienezza di stadi dell’intendere.
Casto achille, helleborus hyemalis.
  1.
L’amichevole eco dell’abbaiare
di cascinale in cascinale
solleva la mente conducendola
sopra le chiome degli olivi
e sopra i coppi terminali dei comignoli
mentre l’Orsa si sposta perfetta
viandante dai passi di scolta nel giro
delle mura.
Quante lune essa vede
nel ruotare della notte
nelle ellissi aranciate dell’insonnia
distantissime eppur vicinissime
ai filari delle viti viterbesi.
Sguardo
sobrio ed ebbro di bellezza
(è bello il moto matematico
delle lune sì come del dire).

2.
Dal borgo di tufo sospeso nella luce
e nella necessità dell’eremo
nel suono del giorno di mani delicate
per i semplici dell’horto
e nel raccoglimento
finestre e millenario sguardo
finestre di vetri sottili
in faccia alla montagna.

Così vertiginosa e sola
negli scoscendimenti della montagna
e nello spacco in giù
in giù nel tempo
nel suono del sole-falco
e nei cerchi concentrici del mattino:
la profondità e l’altezza
così vertiginosa e sola.

3.
Un giro armonico della mente
un sussulto della luce
un contrappunto di nubi e di respiro.

Intessere meriggio
entro severi margini di bellezza
non facili ascese dello sguardo
interroganti scoscendimenti del silenzio.

Necessità traversare l’antica giovinezza
dei refettori della biblioteca e dello spedale.

L’intonaco fin quassù disteso con spatole
di pazienza, pastosità di panificatore.
(Se concertante pane per la mente.....)

4.
Lo speziale, il cantore degli Atridi,
il mastro concertatore di Lipsia,
il levigatore di lenti ad Amsterdam,
quell’Inglese spasmodico di naufragi,
l’incedere di Thelonius,
l’architettore fantasticatore
di monstra, mirabilia,
il potatore d’alberi.

Mossa pietra
concertare dal meditante biancore
di stanze assuefatte al gregoriano
e ancora l’ospitalità severa dei refettori
la cena che s’apparecchia
etrusca sapienza del lapis peperinus.

Come un esercizio (esercizio?
meditante accordo, invece,
saggi di geologica vertigine)
il Clavicembalo ben temperato
Sweet Georgia Bright
e più in là un drago, un’echidna,
un elefante turrito...

Così vertiginosa e sola la musica.
  Una vita da calzolaio:
tiene bottega accanto alla porta della città
sente Dio come una ferita che non rimargina

e i libri rappresentano l’oceano
della sua ignoranza.
Una sera decembrina,
la neve spinta ai lati delle strade,
il biancore sospeso nell’aria.
Un uomo avvolto nel mantello
torna a casa,
imbocca il vicolo dietro il Duomo.
Rischia di scivolare, s’appoggia al muro.
La rugosità del mattone
gli provoca un taglio alla mano.
Guarda il sangue sgorgare.
Ha nel palmo vecchie cicatrici
di lavoro e di buio.
Nel buio del vicolo quel poco sangue
quel graffio quel bruciore
gli fanno udire la luce
d’uno spasmodico sole che transita
dietro la luna offuscata
dal biancore nivale.
  Nella tabaccheria scintilla Maglie
di smaltate scatole segrete di tabacchi
finissimi (les ports du monde sopra
i coperchi e l’occasione di conservarvi,
una volta vuotate, minime cose
che appartennero a giorni e luoghi e nomi).
Quasi un Caspio, quel mare
vasto e chiuso, dell’esistere.

Oggi acquisto un atlante di seconda
mano da un venditore
in Via Ginnasio.

Mi seducono gli abusati giganti:
marinai della lontananza,
abiti logori dell’attesa.
Allegate le tavole a colori
di navi e locomotive che solcano
la cotica terrestre e acquerelli
di luoghi dell’andare.

Nella tabaccheria vi cerchiamo
l’estuario del Tago
e Saint Trophime ad Arles.
E Bakù che non ho mai vista.
Spera magica lo specchio
dietro il bancone
volti e gesti assorbe
nel nerofumo del suo guardare.

Sulla sedia impagliata acciambellato
un gatto randagio ci ascolta
perplesso (forse sa meglio di noi
la voluttà dell’andare, l’enigma
del restare).
  Quando la Canicola
torna a prendere possesso
dei suoi feudi lungo un attimo
(che ha durata d’eternità) le Sante e i Santi
tra finire della notte e baluginare del mattino
discendono a cavalcioni di folate d’aria infocata
lungo i muri della Cattedrale
e in una danza d’abisso mescolano
l’angoscia tutta umana del morire
con lo stare fessurato della materia.
  Parigi che divampa nello specchio
per me argenteo dell’acquamanile
(lavato offrirò il corpo al fuoco, al mondo).
L’acqua e i suoi ponti visitano l’occhio
del mio vigilare e i pesci
devono respirare la neve
dell’inverno lunghissimo che s’apparecchia
(soif de vérité: la mienne: la nôtre): bussano.
Entrate, Signora, stella cometa
che non vanisce, ma dimora e cresce.
Vi appresto questo tappeto di gocce
scintille della fronte, acqua secreta
nell’angoscia lucente che a tutti
mi unisce i viventi – e nell’intelletto
che ci fa grande cosmo di pensiero
e guizza dentro l’acqua, sfiora tutti
i fondali dell’essere, s’immerge
fino nella radice della voce
nascosta, insistente, albeggiante:
lì si scioglie.
Sfiorando perle di rugiada (sorge,
ecco sorge) incedete verso l’occhio
che fu io, ch’è l’essere quando a se stesso
torna. Il cosmo pensante si dissolve
in dolcezza, nel fuoco e nello specchio.
  Ho pareti di musica stanotte
a inchiostrare sapienza di me-femmina
che, cavando la lingua con tre dita
dalla bocca, navigante erte rotte,
la lascia volitare nella luce
stellante della musica-tremore
cangiandola in vertigine per rozzi
maschi che apprenderanno il moto audace

della mente nel farsi oriente e canto,
scangiandola in fuoco arduo ed ascendente
per moto della musica sapiente
spiralante vertigine: è l’incanto.
Bevo il mare e parola, inobliata libertà,
lunazione d’aritmetica cadenza
e pure spasmo se nell’uovo
la sapienza è una musica scavata

per le ascensioni del tuorlo (fiorisce
e me-femmina memore del passo
dei lupi e me-mondo di sé custode
quando impera violenza che ferisce).
Guaina di vita ora irrompi, o lingua
traverso il tempo-traccia transumante
giunco del canto zenitale, o lingua.
  Questa non è una traduzione, ma un itinerario di approssimazione ad una delle liriche più doloranti e problematiche di Paul Celan; quella che segue non è una traduzione, ma un umile avvicinamento, solo un incerto, manchevole avvicinamento:


Ho ricopiato allora TODTNAUBERG
e me la sono ridetta
(violata, variata, ri-versificata)
in italiano.
Ci si appropria di una poesia,
la si ruba anche:
privilegio del lettore,
rischio del lettore.

Arnica, eufrasia (consolano lo sguardo)
e un sorso dalla fontana
che ha la stella in cima
(ha forma di dado – è lancio di dadi?)

poi
nella Hütte

e scrivere nel quaderno
che i nomi accolse di chi
avanti il mio? (e lo so, lo so,
ma solo accennando riesco a dire
e poso la punta della penna
sull’enorme bianco
e solchi traccio
sullo stesso territorio
già dagli assassini arato

orrore e ribrezzo in me)

nel quaderno
un rigo scrivere per
una speranza, oggi,
nella parola (coraggiosa e di riscatto)
che verrà, detta (essa sia detta) (essa avvenga)
da un uomo di pensiero (mente,
pensiero, meditante parola:
ansito di vita dopo lo sterminio)

poi radure, non spianate,
orchidee e orchidee, isolate,
parole crude (pronuncio i nomi,
precisi e irrimediabili:
fascismo, sterminio, forno crematorio)

più tardi, in auto,
e chiare
l’uomo che ci accompagna
ascolta (testimone, egli
ode bene l’affermazione:
voglio che il filosofo
ammetta la propria colpa
ch’egli dichiari che il pensiero
non seppe
che il pensiero non volle salvare
i milioni)

percorsi a mezzo
i viottoli di tronchi
nella torbiera gonfia,
umidità (forse lacrime annodate in gola)
molta.
  1.

Un interno olandese
di luce zenitale
ma filtrata traverso
finestre rabdomantiche
(fanno intuire il porto,
il vociare al mercato,
fiammea l’ora sospesa
sopra Delft invisibile).
Un interno di cose
segnali d’esistenza
modulato silenzio
sulle mappe del tempo.


2.

Interno provenzale
quella sedia impagliata
quieta all’angolo, gialla.

“Puoi posarvi gli abiti
logorati d’attesa”

dice la voce o i libri
che compulsi, vorrei aggiungere.
E con una matita
sottolinearvi magistrali versi.

“T’arrischierai di nuovo
a scrivere, ancora, dopo i maestri?”

soffia la voce.


3.

Interno giapponese
(sumi e) :
il pennello l’inchiostro
la danza della mano
la mano che qui danza
l’inchiostro sulla neve
del foglio
e il pennello infine
a prendere congedo.

Segue contemplazione.


4.

Interno salentino
con tovaglia di Fiandra
e immedicabile atra
assenza nelle stanze
dov’è vano cercare.
Finestra su terrazzi
e comignoli bianchi
di calce e biancheria
stesa ad asciugare; vento.
I suoi occhi trasparenti.


5.

Un interno ateniese
con lampada da tavolo
(nella mezz’ombra il volto
della sera e silenzio,
sacri anfratti scrittori)
inquadra la finestra
i capitelli della
Biblioteca d’Adriano:
sedimenta il caffè
al gocciare del tempo
alla carezza della
mano sopra la pagina
al danzare del sogno
nell’inchiostro.


6.

Palestinese interno:
cadavere bambino
nella camicia-uovo
e sopra il legno brullo
dell’ostensione
(lo piangono le Madri
raccolte attorno al tavolo
dove mangiano il lutto).


7.

Siracusano interno
è piazza a forma d’occhio
(esterno come ventre
della mediterranea
madre nella lucìa
di pietra e quaglia in volo).
Siracusano interno
è disco biancheggiante
di pietra ove, seduti,
Antigone nell’eco
dall’eco disperata
della Legge s’intride
mani di polvere aspra
d’aspro suolo, gli uccisi.
  Fascinazione del numero quattordici, rigore del sonetto, gloriosa invenzione siculo-italiana. A posare linee di scrittura sul foglio, a comporle sullo schermo del tablet, quattordici arcate di ponte, quattordici giri armonici. Onore a te, Giacomo da Lentini, se ancor oggi geometriche forme conchiuse sanno alludere all’universo infinito et mondi e onore alla cura secolare, generazione dopo generazione, per quelle claustrali strofe che aprono l’invenzione, per quella disciplina nello scrivere di rigore ed eleganza. Il perché della scrittura filtra attraverso gli schemi metrici. Poi li subissa.  
                                         
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