Antonio Devicienti | |||||||||||||||||||||
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Fabbrichiamo il nostro destino giorno per giorno, mente e mani immersi nel nostro proprio tempo. Guardiamo talvolta a destini già compiuti, in apparenza, ma che generosi si schiudono nuovamente per noi e con noi colloquiano. Quando la solitudine s’addensa fin nella riarsa cenere invernale del focolare e i bicchieri, la credenza, la mensa, la madia sono il sognare delle cose di se stesse, ma senza più traccia di presenza umana, andare delle congelate ombre nell’immensa casa sprangata all’attesa serale, lanterna di controvento il mano scritto, oscillante fanale del treno, si consegna al passaggio per stazioni deserte, fedele alle sue ossessioni, segnato, ingravidato, scabro greto di fiumara, spasmodico nell’eco. |
La scrittura nei giorni si dispiega, s’ammùtinano o s’addensano i versi: ali pentesilea non ha e annega nel braciere annega degli universi. Hanno posto l’assedio a Königsberg ché dal Baltico, spinta non clemente la scrittura, accampàti nella mente tutti, tutti: guiscardo con von homburg, kohlhaas ed alcmena nel risplendere di luce nera e di kantiani soli: reclamano esistenza per contendere al mutismo dei giorni senza voli la pienezza di stadi dell’intendere. Casto achille, helleborus hyemalis. |
1. L’amichevole eco dell’abbaiare di cascinale in cascinale solleva la mente conducendola sopra le chiome degli olivi e sopra i coppi terminali dei comignoli mentre l’Orsa si sposta perfetta viandante dai passi di scolta nel giro delle mura. Quante lune essa vede nel ruotare della notte nelle ellissi aranciate dell’insonnia distantissime eppur vicinissime ai filari delle viti viterbesi. Sguardo sobrio ed ebbro di bellezza (è bello il moto matematico delle lune sì come del dire). 2. Dal borgo di tufo sospeso nella luce e nella necessità dell’eremo nel suono del giorno di mani delicate per i semplici dell’horto e nel raccoglimento finestre e millenario sguardo finestre di vetri sottili in faccia alla montagna. Così vertiginosa e sola negli scoscendimenti della montagna e nello spacco in giù in giù nel tempo nel suono del sole-falco e nei cerchi concentrici del mattino: la profondità e l’altezza così vertiginosa e sola. 3. Un giro armonico della mente un sussulto della luce un contrappunto di nubi e di respiro. Intessere meriggio entro severi margini di bellezza non facili ascese dello sguardo interroganti scoscendimenti del silenzio. Necessità traversare l’antica giovinezza dei refettori della biblioteca e dello spedale. L’intonaco fin quassù disteso con spatole di pazienza, pastosità di panificatore. (Se concertante pane per la mente.....) 4. Lo speziale, il cantore degli Atridi, il mastro concertatore di Lipsia, il levigatore di lenti ad Amsterdam, quell’Inglese spasmodico di naufragi, l’incedere di Thelonius, l’architettore fantasticatore di monstra, mirabilia, il potatore d’alberi. Mossa pietra concertare dal meditante biancore di stanze assuefatte al gregoriano e ancora l’ospitalità severa dei refettori la cena che s’apparecchia etrusca sapienza del lapis peperinus. Come un esercizio (esercizio? meditante accordo, invece, saggi di geologica vertigine) il Clavicembalo ben temperato Sweet Georgia Bright e più in là un drago, un’echidna, un elefante turrito... Così vertiginosa e sola la musica. |
Una vita da calzolaio: tiene bottega accanto alla porta della città sente Dio come una ferita che non rimargina e i libri rappresentano l’oceano della sua ignoranza. Una sera decembrina, la neve spinta ai lati delle strade, il biancore sospeso nell’aria. Un uomo avvolto nel mantello torna a casa, imbocca il vicolo dietro il Duomo. Rischia di scivolare, s’appoggia al muro. La rugosità del mattone gli provoca un taglio alla mano. Guarda il sangue sgorgare. Ha nel palmo vecchie cicatrici di lavoro e di buio. Nel buio del vicolo quel poco sangue quel graffio quel bruciore gli fanno udire la luce d’uno spasmodico sole che transita dietro la luna offuscata dal biancore nivale. |
Nella tabaccheria scintilla Maglie di smaltate scatole segrete di tabacchi finissimi (les ports du monde sopra i coperchi e l’occasione di conservarvi, una volta vuotate, minime cose che appartennero a giorni e luoghi e nomi). Quasi un Caspio, quel mare vasto e chiuso, dell’esistere. Oggi acquisto un atlante di seconda mano da un venditore in Via Ginnasio. Mi seducono gli abusati giganti: marinai della lontananza, abiti logori dell’attesa. Allegate le tavole a colori di navi e locomotive che solcano la cotica terrestre e acquerelli di luoghi dell’andare. Nella tabaccheria vi cerchiamo l’estuario del Tago e Saint Trophime ad Arles. E Bakù che non ho mai vista. Spera magica lo specchio dietro il bancone volti e gesti assorbe nel nerofumo del suo guardare. Sulla sedia impagliata acciambellato un gatto randagio ci ascolta perplesso (forse sa meglio di noi la voluttà dell’andare, l’enigma del restare). |
Quando la Canicola torna a prendere possesso dei suoi feudi lungo un attimo (che ha durata d’eternità) le Sante e i Santi tra finire della notte e baluginare del mattino discendono a cavalcioni di folate d’aria infocata lungo i muri della Cattedrale e in una danza d’abisso mescolano l’angoscia tutta umana del morire con lo stare fessurato della materia. |
Parigi che divampa nello specchio per me argenteo dell’acquamanile (lavato offrirò il corpo al fuoco, al mondo). L’acqua e i suoi ponti visitano l’occhio del mio vigilare e i pesci devono respirare la neve dell’inverno lunghissimo che s’apparecchia (soif de vérité: la mienne: la nôtre): bussano. Entrate, Signora, stella cometa che non vanisce, ma dimora e cresce. Vi appresto questo tappeto di gocce scintille della fronte, acqua secreta nell’angoscia lucente che a tutti mi unisce i viventi – e nell’intelletto che ci fa grande cosmo di pensiero e guizza dentro l’acqua, sfiora tutti i fondali dell’essere, s’immerge fino nella radice della voce nascosta, insistente, albeggiante: lì si scioglie. Sfiorando perle di rugiada (sorge, ecco sorge) incedete verso l’occhio che fu io, ch’è l’essere quando a se stesso torna. Il cosmo pensante si dissolve in dolcezza, nel fuoco e nello specchio. |
Ho pareti di musica stanotte a inchiostrare sapienza di me-femmina che, cavando la lingua con tre dita dalla bocca, navigante erte rotte, la lascia volitare nella luce stellante della musica-tremore cangiandola in vertigine per rozzi maschi che apprenderanno il moto audace della mente nel farsi oriente e canto, scangiandola in fuoco arduo ed ascendente per moto della musica sapiente spiralante vertigine: è l’incanto. Bevo il mare e parola, inobliata libertà, lunazione d’aritmetica cadenza e pure spasmo se nell’uovo la sapienza è una musica scavata per le ascensioni del tuorlo (fiorisce e me-femmina memore del passo dei lupi e me-mondo di sé custode quando impera violenza che ferisce). Guaina di vita ora irrompi, o lingua traverso il tempo-traccia transumante giunco del canto zenitale, o lingua. |
Questa non è una traduzione, ma un itinerario di approssimazione ad una delle liriche più doloranti e problematiche di Paul Celan; quella che segue non è una traduzione, ma un umile avvicinamento, solo un incerto, manchevole avvicinamento: Ho ricopiato allora TODTNAUBERG e me la sono ridetta (violata, variata, ri-versificata) in italiano. Ci si appropria di una poesia, la si ruba anche: privilegio del lettore, rischio del lettore. Arnica, eufrasia (consolano lo sguardo) e un sorso dalla fontana che ha la stella in cima (ha forma di dado – è lancio di dadi?) poi nella Hütte e scrivere nel quaderno che i nomi accolse di chi avanti il mio? (e lo so, lo so, ma solo accennando riesco a dire e poso la punta della penna sull’enorme bianco e solchi traccio sullo stesso territorio già dagli assassini arato orrore e ribrezzo in me) nel quaderno un rigo scrivere per una speranza, oggi, nella parola (coraggiosa e di riscatto) che verrà, detta (essa sia detta) (essa avvenga) da un uomo di pensiero (mente, pensiero, meditante parola: ansito di vita dopo lo sterminio) poi radure, non spianate, orchidee e orchidee, isolate, parole crude (pronuncio i nomi, precisi e irrimediabili: fascismo, sterminio, forno crematorio) più tardi, in auto, e chiare l’uomo che ci accompagna ascolta (testimone, egli ode bene l’affermazione: voglio che il filosofo ammetta la propria colpa ch’egli dichiari che il pensiero non seppe che il pensiero non volle salvare i milioni) percorsi a mezzo i viottoli di tronchi nella torbiera gonfia, umidità (forse lacrime annodate in gola) molta. |
1. Un interno olandese di luce zenitale ma filtrata traverso finestre rabdomantiche (fanno intuire il porto, il vociare al mercato, fiammea l’ora sospesa sopra Delft invisibile). Un interno di cose segnali d’esistenza modulato silenzio sulle mappe del tempo. 2. Interno provenzale quella sedia impagliata quieta all’angolo, gialla. “Puoi posarvi gli abiti logorati d’attesa” dice la voce o i libri che compulsi, vorrei aggiungere. E con una matita sottolinearvi magistrali versi. “T’arrischierai di nuovo a scrivere, ancora, dopo i maestri?” soffia la voce. 3. Interno giapponese (sumi e) : il pennello l’inchiostro la danza della mano la mano che qui danza l’inchiostro sulla neve del foglio e il pennello infine a prendere congedo. Segue contemplazione. 4. Interno salentino con tovaglia di Fiandra e immedicabile atra assenza nelle stanze dov’è vano cercare. Finestra su terrazzi e comignoli bianchi di calce e biancheria stesa ad asciugare; vento. I suoi occhi trasparenti. 5. Un interno ateniese con lampada da tavolo (nella mezz’ombra il volto della sera e silenzio, sacri anfratti scrittori) inquadra la finestra i capitelli della Biblioteca d’Adriano: sedimenta il caffè al gocciare del tempo alla carezza della mano sopra la pagina al danzare del sogno nell’inchiostro. 6. Palestinese interno: cadavere bambino nella camicia-uovo e sopra il legno brullo dell’ostensione (lo piangono le Madri raccolte attorno al tavolo dove mangiano il lutto). 7. Siracusano interno è piazza a forma d’occhio (esterno come ventre della mediterranea madre nella lucìa di pietra e quaglia in volo). Siracusano interno è disco biancheggiante di pietra ove, seduti, Antigone nell’eco dall’eco disperata della Legge s’intride mani di polvere aspra d’aspro suolo, gli uccisi. |
Fascinazione del numero quattordici, rigore del sonetto, gloriosa invenzione siculo-italiana. A posare linee di scrittura sul foglio, a comporle sullo schermo del tablet, quattordici arcate di ponte, quattordici giri armonici. Onore a te, Giacomo da Lentini, se ancor oggi geometriche forme conchiuse sanno alludere all’universo infinito et mondi e onore alla cura secolare, generazione dopo generazione, per quelle claustrali strofe che aprono l’invenzione, per quella disciplina nello scrivere di rigore ed eleganza. Il perché della scrittura filtra attraverso gli schemi metrici. Poi li subissa. | |||||||||||
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