Enrico Cerasi
   
    Adorno e il signor Dreibus.
Note per una filosofia critica della cultura
   
Theodor W. Adorno   I. Rispondendo a numerose lettere indignate pervenutegli in seguito a un intervento radiofonico in cui aveva letto i suoi Piccoli commenti a Proust – indignate a causa delle eccessive parole straniere di cui, a dire dei radioascoltatori, egli aveva fatto uso –, Adorno rievoca un oscuro ricordo della sua adolescenza:

Tale esperienza risale fino alla mia infanzia, quando nel tram su cui conversavo ingenuamente con un compagno durante il percorso verso la scuola il vecchio Dreibus, un vicino della nostra strada, mi aggredì rabbioso: «Maledetto briccone, smettila col tuo alto tedesco e impara una buona volta a parlare il tedesco per bene». La paura che mi fece il signor Dreibus non venne praticamente attenuata quando non molto tempo dopo venne portato a casa su una carriola completamente ubriaco e poco dopo morì. Per la prima volta mi aveva insegnato che cos’è il rancore [Rancue], una cosa per cui non c’è una parola tedesca giusta, a meno che non lo si scambi col risentimento [Ressentiment], così fatalmente amato oggi in Germania, e che d’altra parte anch’esso è stato da Nietzsche non inventato ma importato. In breve, la rabbia sulle parole straniere si spiega in primo luogo con la condizione psichica di persone rabbiose, per le quali l’uva è troppo in alto.

Il signor Dreibus che si accanisce con il giovane Adorno, offeso dalla sfacciataggine con cui il ragazzo si dissociava dalla «comunità popolare» e dal suo linguaggio popolar-nazionale ricorda i compagni di scuola descritti ne “Il cattivo compagno” – uno dei più duri aforismi dei Minima moralia, non compreso nella prima edizione italiana dell’opera – i quali, già indignati dalle frasi troppo lunge del ragazzo, dopo il ’33 si sarebbero scandalizzati per il carattere decadente dell’alta letteratura tedesca. Scrive Adorno:

A ben vedere potrei dedurre il fascismo dai ricordi della mia infanzia. Molto tempo prima di arrivare vi aveva spedito i suoi messaggeri, come un conquistatore in lontane province: i miei compagni di scuola. Se la classe borghese coltiva da tempo immemorabile il sogno della selvaggia comunità popolare, dell’oppressione di tutti ad opera di tutti, ragazzi che si chiamavano già con nomi come Hornst e Jüngen e cognomi come Bergenroth, Bojunga ed Eckhardt, hanno incarnato il sogno prima che gli adulti fossero storicamente maturi per realizzarlo. Ed io avvertii con tanta evidenza la violenza dell’incubo spaventoso a cui tendevano, che ogni felicità mi apparve – in seguito – provvisoria e revocabile. L’avvento del Terzo Reich colse di sorpresa il mio giudizio politico, ma non la mia inconscia predisposizione angosciosa. Tutti i motivi della catastrofe permanente mi avevano sfiorato così davvicino, i segni premonitori del risveglio tedesco erano stati impressi così indelebilmente in me, che riconobbi poi ogni cosa nei tratti della dittatura hitleriana […]. I cinque patrioti che si precipitavano su un compagno isolato per coprirlo di botte e lo denunciavano come traditore della classe quando si lamentava presso l’insegnante, non sono gli stessi che torturavano i prigionieri per punire la spudoratezza di quelli che, all’estero, sostenevano che i prigionieri venivano torturati? Quelli che scatenavano un pandemonio a non finire quando il primo della classe commetteva uno sbaglio non hanno circondato, sogghignando imbarazzati, il detenuto ebreo, e non l’hanno schernito quando cercava troppo maldestramente di impiccarsi? Quelli che non riuscivano a scrivere una frase che stesse in piedi, ma trovavano troppo lunga ciascuna delle mie, non liquidarono la letteratura tedesca per sostituirla con la loro cattiva produzione? […] Non ho più bisogno di sognarmeli da quando, pubblici ufficiali e candidati della morte, sono emersi in piena luce del giorno e mi hanno privato del mio passato e della mia lingua. Nel fascismo l’incubo della mia infanzia è giunto a sé stesso.

A muovere il signor Dreibus, così come i compagni di scuola del giovane Adorno, è un rancore cieco, una sorda ostilità verso un linguaggio che cerchi di sottrarsi all’immediatezza, alla rassicurante parvenza di comprensibilità. La frase troppo lunga, la parola ricercata, come poi la stessa letteratura classica tedesca, furono considerati dai funzionari nazisti dei fenomeni decadenti, degli insulti al popolo, delle irriverenti minacce. Perché? Nella pagina sopra citata, Adorno si riferisce alla condizione psichica della «persone rabbiose, per le quali l’uva è troppo in alto». L’intellettuale, insomma, godrebbe di un privilegio che al signor Dreibus e ai suoi pari sarebbe negato. Ma quale? Marcuse in alcune pagine apparse nel 1965 con il titolo: Remarks on a Redefinition of Culture, sostiene che l’intellettuale, con nel suo ostinato tentativo di rimanere fedele all’ideale dell’humanitas ferocemente negato dal tardo-capitalismo, nega la divisione del lavoro su cui questo si fonda:

Nella sua forma e direzione prevalente, il progresso di questa civiltà richiede un pensiero di tipo operativo e comportamentistico ed esige che si accetti la razionalità produttiva dei sistemi dati, difendendoli e migliorandoli, non certo negandoli. E il contenuto (che è per lo più un contenuto nascosto) della cultura superiore consisteva proprio […] in tale negazione: in un atto di accusa contro la distruzione istituzionalizzata delle potenzialità umane e in un impegno preso di fronte a quella speranza che la società nella sua forma costituita ha denunciato come “utopica”. Certamente la cultura superiore ha sempre avuto un carattere affermativo, in quanto distaccata dalla fatica e dalla miseria di coloro che con il loro lavoro riproducevano la società di cui essa era cultura; a questo livello la cultura superiore divenne ideologia della società. Ma come ideologia essa era dissociata dalla società, e questa dissociazione era libera di comunicare e di trasmettere la contraddizione, l’accusa e il rifiuto.
Theodor W. Adorno
Herbert Marcuse
Herbert Marcuse
   
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